New York – Se una decina d’anni fa qualcuno mi avesse detto che avrei pensato, scritto e fatto un film non su Giappone, Cina o qualcuno dei miei vecchi temi di interesse, ma sull’Italia, mi sarei chiesto se il mio interlocutore avesse fumato sostanze illegali. Ma per come la vedo ora, e per come ritengo che le imminenti elezioni politiche in Italia saranno cruciali, e il modo in cui ho trascorso i miei ultimi anni non mi sorprende per nulla. Il motivo non sono solo quelle due famigerate parole, Silvio e Berlusconi. Il fatto è che l’Italia è centrale in una serie di fenomeni che da tempo mi preoccupano per il futuro dell’Occidente.
Mi appassionai per la prima volta all’Italia a causa di Silvio Berlusconi. Sì, è così. Noi dell’Economist lo dichiarammo inadatto a governare l’Italia” sulla nostra copertina dell’aprile 2001, per ragioni di principio; niente a che vedere con gli scandali sessuali per i quali più tardi divenne famoso in Gran Bretagna e in America. I princìpi in questione riguardavano il giusto rapporto che ci deve essere in una democrazia tra il potere privato, capitalistico, e il governo – devono restare il più possibile separati, così come un arbitro di calcio deve restare indipendente dalle squadre – e l’importanza dello stato di diritto.
Non eravamo “per la sinistra” e di certo non eravamo “comunisti”, come diceva Berlusconi, anche se io assomiglio a Lenin. Non eravamo nemmeno “contro la destra”. Eravamo contro la conquista dei poteri di governo in una democrazia occidentale da parte di un singolo, enorme interesse privato; ed eravamo contro l’erosione dello stato di diritto che quell’interesse provocava. Come dice Umberto Eco nel mio film, anche in altri Paesi ci sono tycoon, e potenti lobby e concentrazioni di media perciò quel che accadeva in Italia era e resta un pericolo per la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e molti altri Paesi.
Da quella copertina dell’Economist cominciò il mio viaggio in Italia. Un viaggio allietato da due denunce per diffamazione da parte di Berlusconi (entrambe le cause sono state vinte dall’Economist), e diventato più intenso man mano che approfondivo la mia conoscenza dei problemi dell’Italia in tutte le loro forme: economiche, politiche e morali. Nel corso del viaggio ho scritto un libro per i lettori italiani – “Forza, Italia: Come ripartire dopo Berlusconi” – che ho poi arricchito e rivisto per il lettori inglesi con il titolo “Good Italy, Bad Italy” mentre stavo preparando “Girlfriend in a Coma”. E’ stato un viaggio affascinante, spesso divertente, ma ha avuto su di me due conseguenze: mi ha reso più pessimista, e ancora più preoccupato per le malattie dell’Occidente.
Sono diventato più pessimista perché mi sono reso conto della forte resistenza al cambiamento e alle riforme in Italia, da parte di gruppi di interesse di tutti i tipi. E’ stata questa resistenza il maggior problema del Presidente Monti durante l’ultimo anno. Monti pensa che se fosse riuscito a persuadere questi gruppi di interesse – sindacati, grandi aziende, ordini professionali o pensionati -, che ciascuno doveva fare qualche concessione e rinunciare a qualche privilegio per il bene comune, questo sarebbe accaduto. Un po’ come avviene durante i negoziati per il disarmo, quando i Paesi accettano di rinunciare ai loro carri armati e missili. Ma, almeno per ora, non ha funzionato. Non è successo perché Monti dipendeva dal sostegno parlamentare di partiti che rifiutavano il cambiamento per assecondare il nocciolo duro dei loro elettori, o anche solo per farsi dispetto a vicenda. Non ha funzionato anche perché tutti sapevano che il governo di Monti era provvisorio: bastava aspettare e “far passare la nottata”, come si suol dire. Perfino gli enti locali hanno usato questa tattica, rinviando l’applicazione di nuove leggi visto che sapevano che il voto era imminente.
Questo mi ha reso pessimista per una seconda ragione. Per anni, fino a che la crisi del mercato dei titoli di Stato del 2011 ha costretto l’élite italiana a riconoscere i veri malanni economici del Paese, avevo notato una forte e diffusa tendenza a rifiutare la realtà, a ricorrere a dati falsi o datati per rassicurarsi che il Paese fosse in realtà più forte che debole: un alto tasso di risparmio privato (in realtà dimezzato), famiglie ricche (ma provate a vendere le case che sostengono questa “ricchezza”), un forte settore manifatturiero (che produce solo un settimo del Pil e diventa sempre meno competitivo), l’innata creatività italiana (mentre la meritocrazia è stata distrutta e i neolaureati più creativi emigrano a Berlino, Londra e New York).
Lo choc della crisi del debito sembrava aver cambiato questa percezione. Ma lo ha fatto davvero? Se i gruppi di interesse continuano a bloccare con tanta determinazione le riforme, probabilmente ritengono che in fondo il cambiamento non è necessario. Nei miei momenti di ottimismo mi dico che stanno solo guadagnando tempo, sperando di essere più forti rispetto ad altri gruppi di interesse dopo le elezioni del 2013. Ma può darsi che sperino semplicemente in qualcosa di magico che accada nel frattempo ed eviti la necessità di cambiare: una cura miracolosa proposta da Mario Draghi alla Bce; l’improvvisa disponibilità della Germania a pagare i debiti dei Paesi dell’Europa del Sud, o qualcos’altro. La verità continua a venire evitata.
Queste tendenze – quella dei gruppi di interesse a difendere i loro titoli e privilegi e quella delle élite che cercano di non affrontare la realtà – non sono un’esclusiva italiana. Problemi di questo genere esistono anche nel resto del mondo. Anche l’America che aspetta di vedere come il Congresso risolverà il problema del “fiscal cliff” che minaccia la sua economia dopo il 1 gennaio 2013, vede le lobby difendere i loro privilegi e le élite negare la realtà. La differenza con l’Italia è che qui questo processo è andato avanti a lungo, una ventina d’anni, mentre le altre forze economiche e sociali andavano degenerando. L’America e la Gran Bretagna sono solo all’inizio di questo processo, e continuo a sperare che riusciranno ad evitarlo. L’Italia invece, come dice il titolo del mio film, è finita in coma.
Si risveglierà? La decisione di Berlusconi di presentarsi alle elezioni sfidando l’austerità di Monti fa credere che il rifiuto della realtà resti forte, almeno nella destra. Le elezioni saranno un test cruciale, forse addirittura storico. Saranno la prova di quanto i partiti e le lobby che li appoggiano hanno veramente compreso la natura dei problemi italiani e capito che continuare le vecchie politiche non è una soluzione. Sarà la prova per comprendere se la domanda di nuove idee da parte degli elettori, di nuova responsabilità e anche di facce nuove verrà soddisfatta. E, per quel che riguarda l’Occidente, sarà un test per mostrare se la nostra fiducia nella capacità delle democrazie di correggere gli errori ha un fondamento. Il Presidente Monti ha ragione a dimettersi e anticipare questo esame. È un test che non può e non deve essere più rimandato.
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