NEW YORK (WSI) – Dopo il superamento del massimo assoluto del 2007, a quota 1.576, avvenuta il 10 aprile scorso da parte dell’indice SP500, l’indice che rappresenta la borsa azionaria americana ha impiegato qualche giorno a metabolizzare l’evento, poi ha messo a segno un potente impulso rialzista, che lo ha portato fino a quota 1.672 dopo un volo di ben 4 settimane consecutive.
Si pensi che da inizio anno, su 20 settimane finora completate, solo 4 volte l’indice americano ha accusato un sia pur minimo ribasso rispetto alla settimana precedente. La sua attuale tabella di marcia segnala un’ulteriore accelerazione del ritmo, con le ultime 4 settimane tutte al rialzo e ad una velocità di crociera superiore ai precedenti impulsi avvenuti a partire dal 2012. Si tenga conto che tutto ciò è avvenuto nonostante, come si dice, il mercato avesse già corso molto. Ora la performance di SP500 rispetto a 6 mesi fa è superiore al 24%, mentre da inizio anno ha collezionato un invidiabile 19%.
E’ febbre rialzista piuttosto significativa. L’aver effettuato un impulso così marcato, dopo la rottura dei massimi assoluti, ci conferma che tale superamento non dovrebbe essere stato un fuoco di paglia, ma una precisa volontà di andare a segnarne altri ben più elevati. In questi casi gli ottimisti si sprecano e si sta già svolgendo una gara a chi azzeccherà l’obiettivo di questo rally. Si va da chi prospetta un arrivo intorno a 1.700 per fine anno (i più cauti), fino a chi ritiene superabile anche quota 2000. Se così fosse il rialzo annuo supererebbe il 40%.
Quasi tutti comunque affermano che il rialzo è sostenibile poiché il mercato azionario USA è ancora a buon prezzo e grazie ad un po’ di rotazione settoriale dovrebbe dare ancora buone soddisfazioni. Circa le prospettive di medio-lungo periodo si stanno affermando due diverse ipotesi. La prima, ancora minoritaria, ma che sta facendo rapidamente proseliti, è quella del bull market di lungo periodo, che rifletta l’aspettativa di un futuro roseo per l’economia americana, grazie alla ritrovata crescita sostenibile a cui eravamo abituati negli anni ’90 del secolo scorso.
Un periodo, quello, che fu veramente paradisiaco. Grazie alla fine della guerra fredda, all’introduzione su vasta scala della tecnologia nella produzione e nel consumo (allora si affermò il personal computer e poi internet) e alla trovata della globalizzazione, che beneficiò i paesi dell’allora Terzo Mondo, proiettandoli nella nuova dimensione di “Paesi Emergenti”, si riuscirono ad ottenere impressionanti guadagni di produttività, che permisero il più lungo ciclo di crescita economica dal dopoguerra. L’indice azionario ne beneficiò a tal punto da mettere a segno un guadagno del 3400% dal 1990 al marzo 2000.
Affinchè si ripeta un’età dell’oro paragonabile ai magnifici anni ‘90 dovremmo assistere nei prossimi anni alla riaffermazione degli USA come leader incontrastati sulla scena economica mondiale, in grado di far dimenticare per sempre il primo decennio del 2000, in cui la leadership yankee è stata messa in crisi dall’emergere dei BRICS e dai pasticci combinati dal suo sistema bancario e dall’era Bush. Ma soprattutto abbiamo bisogno che si ripeta una straordinaria combinazione di fattori, tecnologici e geopolitici, che consenta nuovamente di ottenere guadagni di produttività tali da rendere possibile una nuova fase di forte crescita sostenibile. Una crescita “vera” e non puramente illusoria, come fu quella del periodo 2003-2007, realizzata grazie al debito e alla leva finanziaria, che consumarono in anticipo i frutti degli anni futuri e generarono la devastazione del 2008-2009, da cui non siamo ancora usciti appieno.
Gli strategist delle grandi banche d’affari ed i guru delle previsioni economiche, che, per conflitto di interessi, debbono alimentare l’ottimismo degli investitori, cominciano cautamente a delineare le sembianze della nuova grande rivoluzione del secondo decennio del 2000.
A loro parere la molla che potrebbe spingere la crescita americana (e, di conseguenza, l’ottimismo mondiale) potrebbe essere energetica, grazie alle nuove tecnologie di estrazione del gas dalle rocce argillose (shale-gas). Si stima che nei prossimi anni la cospicua presenza di questa fonte energetica nel sottosuolo americano possa condurre all’indipendenza energetica e addirittura a trasformare gli USA in paese esportatore di energia. Le conseguenze potrebbero essere enormi. A livello economico, poiché si eliminerebbe la dipendenza dal petrolio arabo, che perciò scenderebbe di prezzo in modo significativo, beneficiando anche il resto del mondo. Ma anche a livello politico e strategico, poiché permetterebbe all’America di pensare di più alle sue faccende interne senza essere obbligata a fare il gendarme del mondo per garantirsi gli approvvigionamenti energetici. E ciò permetterebbe enormi risparmi di risorse ora impiegate nel mantenimento di un mastodontico apparato militare. Ecco quindi il guadagno di risorse che permetterebbe un nuovo salto in alto al benessere americano e mondiale, magari non enorme come quello degli anni ’90, ma certamente significativo.
Occorre aggiungere però che la tecnologia dello shale-gas procura parecchi problemi ambientali e suscita opposizione degli ambientalisti: deturpamento del paesaggio con la costruzione di grandi quantità di torri di estrazione; dispersione di metano nell’atmosfera, con contributo all’effetto serra; immissione di sostanze inquinanti nel sottosuolo; frantumazione delle rocce con possibili incrementi dell’attività sismica. Non è un caso che altri paesi un po’ più sensibili al destino del pianeta, come gran parte di quelli europei, abbiano bloccato le ricerche con queste tecnologie ad alto consumo di pianeta. Dare quindi per scontato che tutto fili liscio, mi pare ancora un po’ troppo azzardato.
Meglio ricorrere ad un’altra chiave interpretativa del grande balzo dei mercati.
Secondo molti, tra cui mi posso sostanzialmente allineare, non si tratta dell’inizio di una nuova era, non l’anticipazione di future rivoluzioni tecnologiche ed energetiche, ma degli effetti della rivoluzione monetaria che è già tra noi da parecchi mesi, introdotta dalla Federal Reserve americana, imitata subito dalla Banca d’Inghilterra e più timidamente anche da Draghi con la sua BCE, ma infine potenziata dalla banca del Giappone con le recenti manovre di Kuroda.
E’ la rivoluzione del Quantitative Easing, o, se vogliamo chiamarla con un termine un po’ più ruspante, dell’illusionismo monetario. Tutte le principali banche centrali hanno sfidato il rischio di deflazione mondiale, che la crisi del 2008 ha proposto, dapprima dando fondo a tutte le armi convenzionali in loro possesso, portando i tassi ufficiali di finanziamento a breve praticamente a zero (la BCE si è per ora fermata a 0,50%). Poi, visto che le armi convenzionali non bastavano, hanno usato il super bazooka dell’acquisto diretto di titoli obbligazionari direttamente sul mercato secondario, pagandoli con emissione diretta di moneta in quantità industriali (85 miliardi di dollari al mese la FED, l’equivalente di 75 la BOJ, una somma complessiva pari a circa 500 miliardi di dollari la BOE). La BCE, che non può comprare direttamente titoli poiché la Bundesbank ha posto il veto, con il celebre piano LTRO ha finanziato le banche commerciali con l’equivalente in euro di oltre 1.300 miliardi di dollari, che in gran parte sono stati impiegati in acquisti di titoli di stato. Si tratta di un’imponente opera di monetizzazione dei debiti pubblici. L’obiettivo ufficiale di queste manovre è fornire liquidità all’economia e schiacciare i rendimenti di mercato a medio-lungo termine per favorire gli investimenti produttivi ed aiutare la ripresa. L’ipotesi è che se le banche ottengono finanziamenti a breve praticamente gratis e se diventa poco redditizio investire le somme erogate dalle banche centrali in attività obbligazionarie a medio-lungo periodo, forse le banche si convinceranno a rimettersi a fare il loro vero mestiere, che è quello prestare danaro alle imprese, contribuendo alla ripresa dell’economia.
Queste politiche hanno immediatamente fatto esplodere il dibattito tra gli economisti, dimostrando ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che l’economia non è una scienza, poiché continua ad essere preda di varie scuole di pensiero che affermano tutto ed il suo contrario. Da un lato la scuola keynesiana (i cui fautori più chiacchieroni sono ultimamente i due premi Nobel Krugman e Stiglitz) plaude all’iniziativa, poiché, detto in soldoni, pensa che quando il rischio è la deflazione, tutto quello che può servire a stimolare la domanda diventa necessario. Per cui ben venga la monetizzazione del debito pubblico e persino un aumento del debito stesso. L’inflazione non è il nemico, ma lo è la recessione.
Si contrappongono i monetaristi e gli economisti della scuola austriaca, che rigettano la possibilità di creare benessere mediante la stampa di moneta e, siccome per stimolare gli investimenti ci vuole la domanda e la domanda dipende dalla fiducia nel futuro, temono che queste manovre non riescano a ripristinare fiducia, ma provochino solo l’esplosione dell’inflazione e la creazione di squilibri in grado di produrre nuove crisi ben peggiori delle precedenti.
Personalmente sono piuttosto diffidente sulla possibilità di creare benessere con la fotocopiatrice e in un certo senso se dovessi dar ragione ad una di queste due fazioni, tenderei a darla alla seconda.
Però credo che le cose siano un pochino più complesse e può benissimo succedere che alla fine non abbiano ragione nè gli uni, nè gli altri. Infatti non dobbiamo dimenticare alcuni dati di fatto.
Il primo è che, nonostante l’enorme esplosione del debito pubblico di tutti i principali stati occidentali e la gigantesca immissione monetaria, di ripresa economica in giro per il mondo se ne vede davvero poca. In USA per ora si procede con una crescita al ritmo annuo medio inferiore al 2% (prima del 2007 crescevano mediamente di oltre il 3% annuo) e un tasso ufficiale di disoccupazione al 7,5% (ancora piuttosto lontano dal 4,5% pre-crisi). Se però si tenesse conto anche dei posti trasformati in part-time e degli scoraggiati, che il lavoro non lo cercano nemmeno più e perciò spariscono dalle statistiche, il vero tasso di disoccupazione salirebbe al 23% e soprattutto non avrebbe ancora cominciato a scendere.
Gli inguaribili ottimisti sono costretti, per consolarsi, a confrontare i risultati americani con quelli europei, dove ormai, per l’area euro, abbiamo collezionato ben sei trimestri consecutivi di recessione.
Anche gli emergenti, con la Cina in testa, non riescono più a ripetere le performance di crescita del passato e si devono accontentare di livelli decisamente inferiori a quelli pre-2007.
Tutto ciò significa che la crisi ha portato dei cambiamenti strutturali nell’economia mondiale, abbassandone cronicamente i tassi di crescita e portando allo scoperto vaste aree di sofferenza (i PIIGS) inimmaginabili solo qualche anno fa.
La crisi ha avuto alcuni effetti di notevole portata. Il primo è stato una generale contrazione del reddito, associato ad un ulteriore aumento della tendenza, già in atto da parecchi anni, alla concentrazione della ricchezza nelle solite mani ed un impoverimento progressivo di vasti strati sociali intermedi. La soglia della povertà è stata superata da milioni di persone negli ultimi anni in parecchi paesi che una volta chiamavamo “avanzati”, sia in Europa che in USA. I più ricchi invece hanno visto aumentare la loro ricchezza anche durante la crisi, salvo in periodi limitati di tempo in cui i mercati hanno falcidiato i valori di Borsa. Siccome la propensione al consumo è più alta nelle categorie più povere ed è decisamente più bassa negli strati sociali maggiormente privilegiati, l’effetto complessivo della redistribuzione del reddito dai poveri ai ricchi è stato, oltre che una sgradevole sensazione di iniquità, anche una riduzione della propensione collettiva al consumo, e una paura del futuro, che hanno ostacolato consumi e ripresa.
Legata a questa considerazione è la possibilità che, anche se si stampa moneta, l’inflazione non riparta, proprio perché la mancanza di fiducia rallenta la velocità di circolazione della moneta, che viene tenuta di riserva o comunque non spesa, né in consumi, né in investimenti produttivi.
Dare moneta alle banche perché finanzino le imprese non serve a nulla quando le imprese che stanno a galla hanno capacità produttiva inutilizzata e nessuna voglia di farsi prestare soldi per ingrandirsi ulteriormente, mentre quelle che hanno bisogno di soldi sono sull’orlo del fallimento e concedere loro credito finirebbe per peggiorare i coefficienti di rischio della banche.
Il risultato è che l’enorme liquidità viene usata sui mercati, creando una gigantesca bolla speculativa che ha dapprima gonfiato gli investimenti in titoli di stato “sicuri” (Bund tedeschi e Bond americani) fino a schiacciarne i rendimenti al minimo e sotto-zero in termini reali.
Siccome la liquidità continuava ad arrivare copiosa si è passati acquistare i bond dei paesi più traballanti, che potevano offrire rendimenti reali allettanti. E’ quasi un anno che proseguono gli acquisti di BTP italiani e di Bonos spagnoli, oltre a tutti i bond dei paesi emergenti e i corporate-bond di ogni emittente (specialmente quelli più spazzatura). Persino i bond greci, che un anno fa nessuno voleva e te li tiravano dietro, ora sono più che raddoppiati di valore.
I media ci hanno raccontato che la diminuzione dello spread BTP/Bund che verifichiamo da un anno era merito dapprima della credibilità di Monti, mentre ora è dell’inciucio di Governo. In realtà il merito è delle banche centrali.
Accanto a questo aumento generalizzato e forzato della propensione al rischio è scoppiata la mania dell’investimento azionario. Anche qui i gestori di patrimoni si sono buttati alla ricerca di rendimento facendo salire tutti i mercati: quelli più solidi fino al raggiungimento di nuovi record assoluti dei loro listini; quelli meno brillanti fino a percorrere anch’essi rally di importanza assai rilevante. Sono mesi ormai che i mercati azionari non riescono nemmeno ad effettuare le classiche correzioni fisiologiche, trascinati al rialzo da acquisti a piene mani.
Chi si attendeva l’inflazione nel carrello della spesa è costretto ad andarla a cercare sui listini azionari ed obbligazionari.
E’ una folle corsa al rialzo, alimentata dalle esplicite promesse delle banche centrali che le loro manovre di allagamento monetario continueranno ancora. La FED e la BOJ hanno addirittura fissato l’entità mensile della loro manovra, senza comunicarne la scadenza temporale. Bernanke ha affermato più volte che continuerà gli acquisti di bond fino a quando la disoccupazione arriverà al 6,5%. Kuroda fino a quando l’inflazione non sarà riportata intorno al 2% annuo.
Corollario di tutto ciò è una guerra valutaria mondiale, con le valute dei paesi maggiormente impegnati nella stampa che perdono valore quotidianamente, facendo in questo modo un favore alle proprie imprese, ma spingendo le banche centrali degli altri paesi ad imitarle.
E’ di pochi giorni fa la dichiarazione di Draghi che in estate la BCE, pronta fin da subito a tagliare ancora il tasso ufficiale allo 0,25%, sparerà una seconda bordata con l’arma non convenzionale LTRO, con tre nuove aste di finanziamento alle banche commerciali a tassi super-agevolati e di importo illimitato.
Pare abbastanza chiaro che i mercati sono sostenuti quasi esclusivamente dalla droga monetaria fornita dalle banche centrali. I signori del danaro hanno creato un circuito di economia virtuale che può tranquillamente continuare a gonfiarsi a prescindere quasi del tutto dall’economia reale. Esso si basa completamente sul gioco delle aspettative. Mentre ufficialmente i banchieri affermano che con le manovre monetarie porteranno la crescita dell’economia, nella sostanza essi portano ai mercati la liquidità per far salire i prezzi degli strumenti finanziari ed alimentare aspettative di nuova liquidità, che farà salire ancor più i prezzi.
E’ il classico meccanismo della bolla speculativa, che può proseguire anche per molto tempo, fino a quando non incontrerà il classico spillo che riporterà tutti sulla terra.
Che sembianze potrebbe assumere lo spillo?
Un primo evento che potrebbe mandare all’aria il gioco è la dinamica degli utili societari USA. Finora l’economia USA non è andata granchè bene, ma gli utili delle imprese americane quotate sì. Da un lato perché durante la crisi hanno pesantemente ristrutturato ed ora sfoggiano una linea assai migliore. Poi a causa del dollaro debole, che le rende maggiormente competitive sui mercati mondiali. Inoltre molti profitti vengono fatti dalle consociate sui mercati emergenti e riportati in patria nei bilanci consolidati. Tuttavia il ritmo di crescita dei profitti sta rallentando e le trimestrali delle scorse settimane sono state piuttosto avare nel delineare le prospettive del secondo trimestre. Se gli utili del trimestre in corso dovessero continuare a rallentare o addirittura mostrare un calo, sarebbe molto difficile riproporre l’ottimismo che circola oggi sui mercati, che si basa su utili in costante crescita per giustificare quotazioni ritenute “ancora a buon mercato, nonostante siano già salite molto”.
Un altro possibile spillo potrebbe colpire i mercati quando le manovre delle banche centrali sortissero qualche effetto positivo sull’economia reale. Tasso a zero e liquidità alle stelle vengono motivate proprio con l’eccezionalità della situazione economica occidentale, che fatica a tornare alla normalità. Quando la normalità venisse almeno in parte recuperata e si vedesse la crescita consolidarsi ed estendersi, le banche centrali rischierebbero veramente di alimentare una spirale inflazionistica impossibile da controllare. Si vedrebbero costrette a ritirare con una certa fretta gran parte della moneta allegramente creata in questi e nei prossimi mesi. I tassi risalirebbero e la bolla scoppierebbe inevitabilmente. Dapprima crollerebbero le quotazioni obbligazionarie, poi anche quelle azionarie e la devastazione sarebbe forse ancora più terribile di quella che abbiamo visto nel 2008.
Di questi due ipotetici spilli il primo, la caduta degli utili, è possibile, ma non molto probabile. Il secondo spillo invece personalmente lo considero molto probabile, anche se è difficile ipotizzare quando verrà la resa dei conti e fornire tempistiche più precise del classico “prima o poi”.
Nel frattempo probabilmente la bolla si ingrosserà ancora. Vedremo l’obbligazionario agonizzare in laterale ancora qualche mese e l’azionario, dopo qualche sporadica correzione, volare ancora verso massimi molto più alti degli attuali.
Poi si incontrerà lo spillo…. Amen.
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