MILANO (WSI) – Si è discusso molto, in questi ultimi quattro anni di ripresa esangue delle economie sviluppate, dell’ipotesi che tra le cause della debolezza ci sia un rallentamento strutturale della crescita della produttività. Questo rallentamento, a sua volta, sarebbe dovuto in parte al fatto che le imprese investono meno, ma in parte anche a un rallentamento del processo di innovazione tecnologica. Robert J. Gordon della Northwestern University, che da molti anni studia il fenomeno, sostiene che il periodo storico migliore per l’innovazione sia stato quello tra il 1870 e il 1900. Quei tre decenni ci hanno regalato l’elettricità, il motore a combustione interna, l’acqua corrente e il bagno in casa, la chimica, il petrolio e l’industria dell’intrattenimento di massa. Il secolo successivo è vissuto di rendita, sviluppando queste scoperte e sfruttando l’accelerazione impressa alla ricerca dall’industria bellica.
La terza rivoluzione industriale, quella del personal computer, della rete e della telefonia mobile, ha creato secondo Gordon un breve revival della produttività di origine tecnologica tra il 1996 e il 2004. Da quell’anno si è andati sempre più rallentando, con una caduta ulteriore dopo il 2007. Per il futuro Gordon è, se possibile, ancora più pessimista. Il rallentamento demografico, il declino nella qualità dell’istruzione, l’ineguaglianza, il degrado ambientale e il peso del debito pubblico e privato ridurranno la crescita dei consumi, per molti decenni, a un misero 0.5 per cento annuo.
Le grandi invenzioni della Belle Époque non richiesero massicci investimenti. Edison, Meucci, Bell, Daimler e Benz (e i fratelli Lumière) lavorarono inizialmente in piccoli laboratori semiartigianali. I grandi progetti a sfondo militare del periodo tra il 1943 e il 1980 (il progetto Manhattan per il nucleare, il progetto Apollo per lo spazio e la prima fase di Internet) furono invece figli dell’intervento pubblico. Con la terza rivoluzione industriale si ritornò in parte nei laboratori artigiani, i famosi garage di Bill Gates e di Steve Jobs. La correlazione tra capitali investiti nella ricerca e idee innovative non è dunque costante e rigorosa come si potrebbe immaginare. Meno male che è così, altrimenti le casse pubbliche vuote e le casse delle imprese dedicate soprattutto all’acquisto di azioni proprie ci consegnerebbero davvero a un futuro di stagnazione.
Naturalmente le banche centrali, tenendo i tassi a zero, hanno sperato ardentemente, in questi anni, di stimolare gli investimenti produttivi. Negli ultimi trimestri, tuttavia, i segnali di eccesso di capacità nell’industria mineraria hanno provocato addirittura una diminuzione degli investimenti totali. Solo nelle ultime settimane si è visto un inizio di ripresa che si spera duraturo. C’è poi un altro problema. L’innovazione, in particolare quella dei processi produttivi, riceve solitamente un forte stimolo quando la forza lavoro umana diventa scarsa e costosa. È in quel momento che le imprese iniziano a rinnovare i macchinari. In questo ciclo, tuttavia, la forza lavoro, in particolare quella non specializzata, è insolitamente abbondante e a buon mercato e le imprese non sentono l’urgenza di investire. E le nanotecnologie, le stampanti 3D, la robotica e la nuvola non creano molta occupazione.
È a questo punto che ci si rivolge tutti quanti al santo dei disperati, il salvatore di ultima istanza, la casa. Se si vuole davvero riassorbire la disoccupazione e alzare la crescita del Pil di un punto bisogna ancora una volta ricorrere al vecchio low tech, all’edilizia, e tenersi dentro la nostalgia per gli anni d’oro, quelli in cui abbiamo pensato a un’accelerazione irreversibile della crescita tecnologica e abbiamo creato la bolla di Internet. Sta dunque per ripetersi il 2002-2003, quando una Fed preoccupata per la perdita di posti di lavoro nell’industria, per la delocalizzazione in Cina, per lo scoppio della bolla e per la guerra al terrore si inventò i tassi bassi con l’idea di rendere convenienti i mutui e stimolare l’edilizia. Non è molto edificante da dire, ma la crescita degli anni 2003-2008 fu dovuta in misura decisiva alla bolla sulla casa.
Il rinvio del tapering della settimana scorsa è stato dovuto con ogni probabilità alla delusione della Fed per l’andamento del mercato immobiliare. Si era pensato, negli anni scorsi, che l’avvio di un ciclo di rialzo dei tassi (effettivamente già partito da mesi sulla parte lunga della curva) non avrebbe prodotto una diminuzione delle richieste di mutuo, bensì un aumento. Quando i tassi sono bassi, infatti, il pubblico pensa che rimarranno tali a lungo e se la prende comoda. Il rialzo dei tassi trasmette invece, solitamente, un senso di urgenza e induce molti a correre in banca prima che il costo del mutuo salga troppo. È lo stesso meccanismo che spinge molti a non comprare in borsa quando il mercato scende e a rompere gli indugi solo quando il recupero successivo appare consolidato.
Questa volta non è stato così. Le richieste di mutui non sono aumentate e in certe città sono addirittura scese. Da qui il desiderio della Fed di fare ridiscendere i tassi a lungo e stare a vedere da qui il nervosismo di Dudley, che ha superato se stesso come colomba del Fomc e ha praticamente dichiarato irrilevanti le soglie di disoccupazione che dovrebbero provocare l’abbandono della linea ultraespansiva. Da questo discendono due conclusioni. La prima è che al Fomc della settimana scorsa non si è deciso semplicemente un rinvio tattico di uno-tre mesi del tapering, ma un inizio di riconsiderazione strategica sull’avvio della normalizzazione dei tassi. La seconda, ancora più interessante per chi investe, è che abbiamo avuto la conferma che la Fed vuole assolutamente una ripresa delle costruzioni robusta e duratura. L’accelerazione della crescita americana dal 2 al 3 per cento, già scontata nelle previsioni di consenso per i prossimi tre anni e, in parte, dalle borse, dipende in gran parte dall’edilizia. La Fed farà di tutto per favorirla e finché non vedremo un’accelerazione irreversibile non avremo da temere sulla politica monetaria.
I beneficiari di questa scelta saranno le società di costruzioni residenziali, le banche erogatrici di mutui (in particolare quelle regionali), l’ampio settore dell’arredamento e dell’home improvement. Quanto ai prezzi delle case, l’aumento delle costruzioni ne rallenterà la crescita, che però continuerà. L’America è pronta per un’accelerazione graduale ma potente del settore. Le case pignorate, che pesavano sul mercato, sono state rivendute o demolite. Milioni di famiglie che si sono formate in questi quattro anni hanno dovuto andare in affitto e il costo della locazione, sempre più alto, le indurrà dove possibile a comprarsi la casa. L’ultima cosa che manca, adesso, è la disponibilità di mutui, ma le avvisaglie concrete di un disgelo ci sono tutte.
L’America è in questo momento il paese più interessante per chi voglia, dall’estero, investire nell’immobiliare. A New York gli affitti sono in continua crescita (non solo a Manhattan) ma la tassazione è molto alta (in particolare per chi non occupa personalmente la casa) e con de Blasio sindaco salirà ancora. Lo stesso discorso vale per la California. Il Texas offre invece una tassazione molto mite, prezzi bassi e un boom economico esplosivo. Tasse basse anche nello Utah, che beneficia di una forte crescita economica e di un costante flusso migratorio dall’inferno fiscale californiano. La ripresa dell’immobiliare nei prossimi anni rimarrà confinata a pochi paesi. Il Regno Unito (e in particolare Londra) vedrà altri aumenti nei prezzi. La popolazione cresce, l’economia va bene, lo spazio per costruire è poco e il governo finanzierà la parte del prezzo d’acquisto di un immobile non coperta dal mutuo bancario.
La Germania vedrà una prosecuzione del rialzo degli ultimi due anni. Il Giappone attrarrà investimenti da Taiwan e dalla Cina. Centri internazionali come Dubai e Singapore seguiranno nei prezzi la ripresa mondiale. Nel resto del mondo i prezzi delle case continueranno a scendere lentamente nei paesi a bassa crescita. I paesi emergenti, dove i prezzi si sono molto gonfiati negli ultimi anni, vedranno una correzione. Evitare Mosca e San Paolo. Rialzi solo in Africa orientale, dal Kenya al Mozambico. La Cina farà di tutto, in particolare a Pechino e Shanghai, per impedire altri aumenti. Nel Mediterraneo interessante solo la Grecia, dove il fondo pubblico di privatizzazioni mette all’asta pacchetti di immobili a prezzi stracciati.
Venendo al breve termine, le borse sono ben attrezzate per assorbire la guerriglia in corso in America sui temi fiscali. Non sono però preparate ai dati macro più grigi che stanno cominciando a uscire. Non c’è niente di allarmante, ma dopo un paio di mesi di costanti sorprese positive sulla produzione vedremo una leggera decelerazione. Anche i consumi sembrano avere rallentato bruscamente, forse per colpa dell’impennata dei prezzi del petrolio e della benzina, ora per fortuna in ritirata.
Se si dispone già di una buona quantità di azioni in portafoglio si può provare ad aspettare 1650 prima di comprarne altre. La finestra di opportunità dovrebbe durare tutto ottobre. I mercati europei possono continuare a performare meglio dell’America, a condizione che l’Italia non riservi sorprese.
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