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L’Italia (s)vende i marchi arricchendo le banche

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ROMA (WSI) – La «scatola cinese» che controlla Telecom che diventa una scatola spagnola; l’Air France verso il 50% di Alitalia. Naufraga l’illusione di tenere in mani italiane le grandi infrastrutture con – pochi – capitali privati.

Questa mattina un annuncio ufficiale spiegherà che una complessa struttura societaria che vede un manipolo di soci controllare Telecom Italia con appena il 22,4% del capitale riunito nella finanziaria Telco – quella che in gergo finanziario si chiama una scatola cinese, per l’appunto – cambierà in parte padrone.

Ne trarranno però beneficio solo alcuni soci. Gli spagnoli di Telefonica, finora al 46% della Telco, saliranno al 60%, conquistando quindi la maggioranza assoluta della scatola societaria e guadagnando di fatto il controllo – che nel tempo aumenterà – della stessa Telco e di conseguenza della Telecom.

I soci che vendono parte delle loro quote – Mediobanca, Intesa-Sanpaolo, le Generali – ne avranno qualche consolazione perchè loro – e solo loro – si vedranno riconosciuto un prezzo di favore per quello che è, o almeno assomiglia molto, al cambio di controllo della Telecom.

La società telefonica si è orribilmente svalutata da quando i suoi soci finanziari, ligi al ruolo di banche e assicurazioni «di sistema» e troppo ossequiosi di fronte alle richieste della politica che non voleva vedere i telefoni italiani cadere in mani straniere – entrarono nel capitale.

Allora pagarono le azioni 2,8 euro l’una; qualche mese fa le hanno svalutate per l’ennesima volta a 1,2 euro, ma sempre considerando un ricco premio di controllo, visto che ancora ieri sul mercato per un qualsiasi acquirente o venditore le stesse azioni valevano solo 59 centesimi.

Adesso Telefonica riconoscerà a quelle azioni «più uguali» delle altre, che stanno in Telco, un valore di oltre un euro. il tutto, ovviamente, senza passare per la strada maestra dell’Opa, l’offerta che tocca tutti gli azionisti, perché la legge italiana prevede che questo strumento entri in azione solo se passa di mano almeno il 30% di una società. Adesso la – debole – speranza di un piccolo azionista può essere solo quella che qualche altro operatore decida di sfidare Telefonica percorrendo proprio al strada dell’Opa.

Ma questioni finanziarie a parte, la parabola di Telecom che va agli spagnoli e quella dell’Alitalia, che in queste stesse settimane vede concretizzarsi la salita dei soci transalpini di Air France dal 25% al 50%, sono percorsi in qualche modo paralleli che segnano la fine di un’età illusoria.

Fallisce quel modello ibrido fatto di – scarsi – capitali privati e di una politica che a seconda dei casi aveva aperto le porte ai nuovi padroni – come in Telecom – o di spinta a cercare azionisti – come in Alitalia – magari lasciando intravedere contropartite su altri piani.

In entrambi i casi un ruolo improprio di cui adesso si mostrano tutti i limiti. La partita che la politica ha invece rinunciato a giocare fin dall’inizio è quella dell’interesse generale, delle regole chiare in cui inserire lo sviluppo delle infrastrutture – le rotte aeree come le reti Internet – preoccupandosi non del passaporto degli investitori, ma della loro capacità di investire.

Ora che il potere negoziale dei soci di Telecom e Alitalia è ai minimi, come le quotazioni delle due società, è difficile pensare che ai nuovi azionisti si possano chiedere impegni vincolanti per lo sviluppo delle aziende che conquistano.

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