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LA CONVENTION IN UNA NEW YORK BLINDATA

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(WSI) – Nella città di tutti e di nessuno, costruita e sfregiata dall’odio e dall’ammirazione del mondo, tutte le Americhe possibili tornano questa settimana a incontrarsi, credendo di scontrarsi. Parte il Congresso del partito repubblicano, concepito dai produttori di questi show sovieto-disneyani come un’incoronazione di George il giustiziere sull’orlo del cratere di Ground Zero, e trasformato nel quartier generale di una controffensiva propagandistica per salvarlo dai suoi errori.

La città magnete sta attirando tutti, laccati businessmen del midwest e scalmanati “ciclisti anti nucleari”, gay esasperati e talebani sudisti della Bibbia, cotonatissime mogli trofeo e reduci di guerra, “moneymen” delle grandi corporation con le bisacce gonfie di dollari per finanziare feste e carriere e “working girls”, oneste lavoratrici del letto, volate per raccogliere le briciole di un banchetto da almeno 365 milioni di dollari.

“The big bad elephant”, il grande, cattivo elefante, il partito repubblicano di Bush simboleggiato dal pachiderma “è in citta” proclama il New York Times a nome di una comunità dove i democratici sono almeno otto volte più numerosi dei repubblicani, ma con l’elefante sono arrivati anche i suoi nemici naturali, i topi delle mille proteste e delle mille cause che credono di rappresentare “l’altra America”, e sono parte integrante e fondamentale della sola, unica America che esiste.

La battaglia dell’elefante e dei topi è la storia alla quale i media, e soprattutto le televisioni, si aggrappanno, disperati al pensiero di quattro giorni di strazianti discorsi in scatola, di ovazioni precotte e riscaldate al microonde, di retorica vacua e patriottarda che ripetano il disastro spettacolare di quella Convention democratica a Boston appiattita da Kerry nel moderatismo.

Ci si attendono almeno duecentomila dimostranti assortiti, ribelli, spaccavetrine, “anarchici”, la nuova parola “ba-bau”, le bande di quel partito di anti Bush che l’opposizione legittima, i democratici, hanno chiuso in cantina per non spaventare il tremulo elettorato centrista e invano il leader presunto degli anarchici (lo spirito di Sacco e Vanzetti non è morto) Richard Picariello protesta davanti a ogni telecamera di non avere mai commesso un atto di violenza in tutta la propria vita, neppure contro un idrante.

La polizia di New York, rafforzata da ignoti squadroni di altri agenti federali e privati ingaggiati per fortificare il Madison Square Garden e aprire una piccola Guantanamo sul “Molo 51” dove concentrare gli arrestati, ha già provveduto a rastrellare 250 ciclisti che in regolamentare casco di plastica e brachette corte nell’afa agostana, pedalavano per le vie di Manhattan per diffondere il messaggio eversivo che “andare in bicicletta fa risparmiare benzina”.

La rappresentazione delle “due Americhe”, della lotta fra i sorci e l’elefante, deve andare in scena, perché la vogliamo noi giornalisti per avere qualcosa da raccontare nella noia di uno show che soltanto la cronaca nera può animare. New York, che vota tranquillamente sindaci repubblicani come Giuliani e Bloomberg ma alle presidenziali torna nella casa Democratica, sente la presenza del circo repubblicano nel tempio dei suoi ludi pubblici, il Garden, come una presenza estranea e da decenni gli strateghi della destra l’avevano evitata per preferire approdi meno ostili.

Ma il risucchio del grande vuoto, di quello che non esiste più a downtown, dove un tempo sorgevano il World Trade Center, le due torri e gli altri edifici demoliti, è stato irresistibile per un Presidente che ha nella sua immagine di protettore dell’America e di crociato contro il terrore islamico il suo unico punto di netta superiorità sull’avversario Kerry.

E dunque, se l’arrivo dell’elefante del potere attirerà i topi del dissenso, tanto peggio. O tanto meglio, per Karl Rove e gli altri registi del circo Bush, che in pubblico denunciano, e in privato sognano, la piccola violenza di strada, le manganellate, i lacrimogeni, l’anarchia che le telecamere ingigantiranno con i loro zoom e che spaventerà gli elettori tremebondi nelle braccia dei repubblicani.

Non è un segreto il fatto che i maggiorenti locali e nazionali del partito democratico, dalla signora Clinton al signor Schuymer, i due senatori dello stato, a Terry McAuliffe, presidente nazionale, ai “capitani” di quartiere stanno tentando di scoraggiare i topi o almeno limitare la loro presenza, ma la loro è una fatica erculea e vana.

Non saranno “locali”, quelli che scenderanno – se scenderanno – in strada a misurarsi con i 60 mila agenti di una polizia di New York già esasperata dalle scarse paghe, dopo le promesse, la retorica e i funerali con vedove e orfani dell’11 settembre e dunque, come tutte le polizie del mondo, vogliosa di scaricare la propria sacrosanta collera sul balordo da strada, sullo sfasciavetrine, non potendo certo manganellare il Presidente o il sindaco.

Una parte consistente dell’opposizione a Bush e quindi anche del partito democratico, ha inghiottito di malavoglia quello sfoggio di moderatismo centrista esibito al Congresso di Boston e imposto come linea elettorale e l’esecrazione per Bush è troppo intesa e viscerale perché si contentino di aspettare il 2 novembre e votargli contro, ammesso che i protestatari vadano a votare.

L’ovvio paradosso, secondo il quale più i “casseur” rompono e più aiutano i partiti che si ammantano di “legge e ordine” come il repubblicano è troppo sottile per chi ha la rabbia in corpo. E magari sospetta, come un tempo disse Ralph Nader, che ormai i due partiti istituzionali, il democratico e il repubblicano, siano soltanto le due facce della stessa moneta, nelle tasche dell’establishment che finanzia l’uno e l’altro per essere sicuro di vincere.

Nella miseria desolante di un dibattito nazionale che, grazie alla luciferina astuzia del “cervello di Bush”, Karl Rove, ha spostato la discussione dalla macelleria irachena in corso alla guerra in Vietnam finita 31 anni or sono, i duecentomila “contro” che la polizia si attende, forse esagerando, sarebbero la ciliegina sulla torta di una campagna repubblicana che promette di guardare avanti, ma tiene gli occhi ben rivolti all’indietro. E spera in una replica newyorkese della Chicago ’68, quando l’incontinenza protestataria dei democratici furiosi per il Vietnam, regalarono la Casa Bianca al detestato Richard Nixon.

Così, mentre il sindaco Bloomberg, molto impopolare dopo le promesse non mantenute di un “miracolo a New York”, esorta i commercianti a tenere aperti i negozi e ristoratori a cucinare per gli avventori, il 20% dei newyorkesi approfitta dell’ultima settimana di estate ufficiale, prima del “Labour Day” che chiude la stagione delle vacanze per lasciare la città e la camera di commercio si aspetta lo stesso disastro finanziario che già si abbattè su Boston in luglio.

La peggiore condanna per Bush, che i newyorkesi sarebbero pronti a infliggere secondo il loro “spirito del luogo”, sarebbe quella che luminari dello show business come Susan Sarandon hanno già pronunciato, l’indifferenza. Continuare a vivere a Manhattan, fare spallucce, ignorare la prospera cafoneria patriottica sul ponte della portaerei museo “Intrepid”, a muoversi tra i camminamenti e gli ingorghi titanici, a lavorare, a sgomitare all’ora di punta, a cenare fuori come se il carrozzone dell’elefante bianco fosse soltanto un altro dei tanti circhi che invadono il “Garden” e poi alzano le tende subito dimenticati, nella certezza che tanto New York non voterà mai per Bush, neppure se altri scellerati dovessero violentarla di nuovo, come tre anni or sono.

Ma ci sono i topolini, richiamati dal pifferaio della Convention, che temono di non riuscire ad abbattere l’elefante alle urne. Anche, ma non lo sanno, per colpa loro.

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