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(WSI) – Due banche (de sinistra), un procuratore rivoluzionario e un’authority post-democristiana combuttano – forse involontariamente, ma combuttano – contro la Fiat. Come se, dopo aver inferto un colpo mortale al nuovo che avanzava – marrazzone, scomposto, poco credibile – adesso qualcuno si preoccupasse di dare una spazzolata a un’istituzione industriale invecchiata, dal potere indebolito, ma che si muove ancora con i riflessi delle antiche prerogative.
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La storia, cerchiamo di riassumerla. Nel luglio 2002 la Fiat stipulò un prestito cosiddetto convertendo con un pool di otto banche, ammontare 3 miliardi di euro, scadenza settembre 2005. Il contratto prevedeva che se la Fiat non avesse restituito il prestito, le banche sarebbero entrate nell’azionariato della casa automobilistica. Con il risultato che sarebbero diventate, con circa il 27 per cento, il primo azionista e che la famiglia Agnelli attraverso le sue finanziarie sarebbe diventato il secondo scendendo al 22 per cento circa del capitale.
Ma tra la primavera e l’estate, un gruppo di fuoco finanziario e legale costituito da Tiberto Brandolini, amministratore delegato di Exor, una delle società finanziarie degli Agnelli, Gianluigi Gabetti, capo di Ifil, Franzo Grande Stevens, avvocato di casa Agnelli, e con la consulenza di Gerardo Braggiotti, attualmente banchiere d’affari in proprio con la banca Leonardo in Milano, agirono in contropiede – e assicuratosi un preventivo mezzo sì della Consob, la commissione che vigila sulle società quotate – con un’operazione di equity swap rastrellarono azioni Fiat sul mercato e riportarono la famiglia Agnelli al 30 per cento. Questa mossa al limite del consentito, che divise la famiglia (con l’opposizione di Andrea Agnelli e di pezzi del ramo Nasi), e che fu fatta senza consultare le banche del convertendo, marginalizzò alquanto quei banchieri che – sotto sotto, e qualcuno apertamente – avevano sperato di mettere le mani sulla Fiat. Tra loro, Enrico Salza, presidente del San Paolo di Torino, potente fiancheggiatore margheritico.
Così venerdì scorso le vendite massicce di Monte dei Paschi di Siena e di San Paolo hanno fatto rumore. Soprattutto l’uscita di San Paolo, senza preavviso, 38 milioni di pezzi venduti a 7,60 euro, non proprio un affare, visto che Mps aveva appena venduto sopra quota 8 euro. Secondo gli osservatori le possibili interpretazioni di questa uscita alla chetichella sono molteplici.
Ma due sono le più interessanti. La prima è puramente tecnica. Cioè, la prevalenza in San Paolo, il cui management è diviso, di una logica finanziaria su quella industriale: dunque vendere adesso a un prezzo complessivamente conveniente perché è difficile che il titolo continui a correre come nei mesi scorsi. Seconda interpretazione: l’uscita potrebbe essere lo sgarbo – che costerebbe al San Paolo molti milioni di euro – fatto da Salza a Luca di Montezemolo, che detesta, e a Gianluigi Gabetti in risposta all’onta dell’equity swap.
Le mosse di Cardia (e della Procura)
Questa seconda interpretazione conviverebbe con alcune altre questioni che riguardano la Fiat. La principale viene da Milano. Domenica, il Sole 24 Ore riferiva che la Procura di Milano avrebbe aperto un fascicolo detto “modello 45” sull’operazione Ifil–Exor (ndr: oggi lo stesso giornale della Confindustria annuncia l’apertura di un’indagine anche da parte della Procura di Torino). Si tratta di un file in cui si introducono cautelativamente delle notizie in attesa di stabilire se esse costituiscano reato oppure no. Il fascicolo 45 è un’arma puntata su Torino soprattutto perché è un elemento di pressione psicologica. Innanzitutto sulla Consob che, dopo un’indagine che dura ormai da quattro mesi, dovrebbe avere ormai tutti gli elementi a disposizione per emettere un giudizio (atteso per questa settimana, potrebbe slittare alla prossima).
Ma alcuni osservatori considerano evidente che se Francesco Greco – peraltro da alcuni considerato credibile candidato alla successione di Lamberto Cardia proprio alla guida della Consob – accende un faro di vigilanza speciale su Torino, ciò potrebbe causare alcuni problemi. Cioè: la campagna cominciata per normalizzare Stefano Ricucci e i newcomers d’assalto, coperti dalle spalle rivelatesi troppo strette di Antonio Fazio, e per ridurre a consigli più miti le pretese (e le intemperanze) pseudocapitaliste di Massimo D’Alema, potrebbe proseguire con un massaggio non amichevole al pezzo più pregiato dell’establishment, la Fiat che sta riconquistando la sua centralità. Per esempio: ostilità da parte delle autorità di vigilanza, banche (de sinistra) che si sfilano, tensione sui titoli e sul lavoro di risanamento di Sergio Marchionne. Anche per questo, il presidente della Fiat, Luca di Montezemolo è furioso per il fascicolo 45.
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