Da quando nel 2010 la Troika dei creditori è subentrata nella gestione della crisi greca, imponendo austerity in cambio di aiuti finanziari, il debito pubblico del Paese è cresciuto di circa il 21% rispetto al Pil (dati Ameco).
In particolare, le misure imposte dai creditori miravano a ridurre il debito pubblico tramite la realizzazione di surplus di bilancio anno per anno. In altre parole, tagliando la spesa pubblica ed aumentando le tasse la Grecia si sarebbe indebitata sempre meno e avrebbe anche ripagato gli aiuti finanziari concessi. Il problema è che questa ricetta non era e non è sostenibile.
Da un lato, infatti, il debito pubblico in valore assoluto si è ridotto (-6% dal 2010 al 2015) ma, dall’altro, l’austerity ha provocato un crollo del Pil di ben il 22%. Se il Pil si riduce ad un ritmo superiore del debito, il rapporto Debito pubblico – Pil, ovviamente, cresce.
Ben venga dunque il taglio del debito che chiede il governo Tsipras, messaggio politico di forte impatto mediatico, purché sia però funzionale all’implementazione di politiche espansive: più spesa pubblica e meno tasse per far ripartire l’economia. Come scriveva infatti John M. Keynes, il momento giusto per l’austerità al Tesoro è l’espansione, non la recessione. Con consumi ed investimenti privati che soffrono, c’è bisogno dell’intervento pubblico.
I creditori, Germania in primis, continuano invece ad imporre ulteriori misure di austerità alla Grecia finendo, come abbiamo visto, per incidere negativamente sul rapporto Debito pubblico – Pil del Paese. Un vero non-sense. Di questo passo, i greci saranno costretti, come in un circolo vizioso, a tagliare ancora stipendi e servizi pubblici e ad aumentare le tasse, oltre che a svendere asset pubblici, come quando hanno ceduto 14 aeroporti proprio ad un’azienda tedesca, la Fraport. Un vero non-sense, o forse è proprio questo il senso dell’austerità?
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