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La lotta al contante? Una pura follia

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ROMA (WSI) – Non costituisce una novità sapere che buona parte del mondo politico stia conducendo una crociata contro l’utilizzo del contante. Bersani, in particolar modo, ogni giorno che passa, rilancia sempre di più nella sua ipotesi di limitarne l’utilizzo del contante, e con esso anche la libertà di spesa dei contribuenti italiani.

Qualche sera fa, a Porta a Porta, proprio Bersani ha ribadito che, qualora eletto, intende promuovere una battaglia senza quartiere all’evasione fiscale, vedendo nella limitazione dell’utilizzo del contante, il mezzo per raggiungere questo fine. In particolare, la soglia di utilizzo del contante verrebbe ridotta a 300 euro, salvo poi ulteriori riduzioni.

Secondo questa tesi, siccome la limitazione dell’utilizzo del denaro contante colpirebbe l’intera collettività, ogni individuo, sarebbe un possibile evasore fiscale, o quantomeno complice di chi commette l’effettivo reato di evasione e che ne trae il maggior vantaggio. Ma le cose, notoriamente, non stanno in questi termini, ovviamente.

Sempre secondo Bersani, abbattere l’utilizzo del contante o addirittura eliminarlo del tutto costituisce, quindi, il mezzo più esperibile per contrastare l’evasione. E anche questo, costituisce una grande menzogna.
Le esperienze degli altri Paesi in giro per mondo particolarmente virtuosi nel contrasto all’evasione, smentiscono questa tesi. Nel contesto europeo, ad esempio, esistono Paesi che, pur non avendo una normativa oppressiva nei confronti dell’utilizzo del contante, risultano ugualmente eccellenti sui livelli di fedeltà fiscale, incomparabili con quelli rilevati al contesto italiano.

Da ciò se ne deduce che il mantra secondo cui la lotta all’evasione fiscale si debba condurre limitando l’utilizzo del contante, è del tutto infondato nei fatti.

Quanto affermato da Bersani, parte da un presupposto del tutto errato, poiché ritiene che colpendo la possibilità di utilizzo del contante, si finisca per colpire anche l’evasione fiscale. Ciò, evidentemente, verrebbe fatto senza comunque rimuovere i prodromi che la determinano. Ma di questo parleremo tra poco.

Il fatto è che questo teorema, oltre a non essere vero, tende a nascondere le reali motivazioni per le quali Bersani intende ridurre l’utilizzo del contante, che sarebbero quelle di concedere un grande aiuto alle banche e al contempo avere il controllo sull’intera popolazione, creando milioni e milioni di sospettati possibili evasori.

Il motivo è molto semplice: le banche sono senza soldi, e quindi potenzialmente insolventi. E’ evidente che se tutti i risparmiatori andassero in banca e chiedessero di riavere i loro soldi depositati, non ce ne sarebbero abbastanza. Quindi, come già abbiamo avuto modo di discutere in un altro articolo, con un provvedimento normativo, verrebbe eliminato del tutto il vero incubo dei banchieri: la cosa agli sportelli.

Ma c’è di più. Le banche, oltre a lucrare le commissioni sulle transazioni che verrebbero effettuate con moneta elettronica, di colpo si troverebbero con una drastica riduzione dei costi necessari per la gestione del contante, quelli del personale compresi. Una vera e propria manna per il sistema bancario.

C’è da dire che il quadro di riferimento della normativa fiscale entro il quale Bersani vorrebbe eliminare il contante, desta molta preoccupazione circa la deriva che potrebbe avere questo pensiero antievasione, che rischierebbe di sfociare in un vero e proprio stato di polizia tributaria, molto più coercitivo rispetto a quello attuale.

Ne costituisce una prova evidente, i metodi con cui il fisco procede ad accertare e a riscuotere la pretesa tributaria, non sempre legittima.
Come noto, gli interventi degli ultimi governi hanno potenziato di molto le armi a disposizione del fisco e di Equitalia per accertare e riscuotere i tributi.

Solo per citare un esempio, nell’ambito del nuovo redditometro recentemente approvato, è stata prevista l’inversione dell’onere delle prova. In buona sostanza, secondo tale impostazione, in caso di accertamento, dovrà essere il contribuente a dimostrare al fisco la provenienza “legittima” delle risorse con le quali egli ha proceduto ad effettuare determinati acquisti.

E già questo, di per se, pone il contribuente in un situazione di debolezza nei confronti del fisco. In pratica, laddove il contribuente non risulti sufficientemente convincente con gli ispettori del fisco, benché la pretesa tributaria possa risultare del tutto infondata, non avrà altra possibilità che ricorrere ai giudici tributari per far valere le proprie ragioni. Ma potrà farlo solo dopo aver pagato un terzo delle imposte rivendicate dal fisco, in maniera più o meno legittima. Oltre a questo, dovrà pagarsi un buon difensore (sempre che ne abbia la possibilità) e sostenere tutti gli oneri per un processo tributario che durerà anni, se non decenni.

Questo, se un soggetto ha la possibilità (anche economica) di potersi difendere. In caso di impossibilità a difendersi o di soccombenza in primo grado giudizio, ammesso che si abbia la possibilità di ricorrere in appello e ottenere giustizia (forse) dopo svariati anni, Equitalia può fin da subito aggredire il patrimonio (laddove esista) del contribuente, oppure pignorarne il conto corrente dove, per imposizione normativa, si sono dovute depositare le proprie sostanze liquide. In questo caso, in pratica, il cittadino verrebbe inibito dalla possibilità di effettuare qualsiasi tipo di spesa, comprese quelle alimentari e/o di sostentamento. Questa sarebbe una vera e propria dittatura tributaria, posta in essere senza aver rimosso le ragioni fondanti dell’evasione fiscale.

Più volte abbiamo discusso dell’oppressione fiscale di questo Paese, sia in termini di procedure di contrasto all’evasione, che di livello della pressione fiscale. Elementi, questi, che contribuiscono a rendere l’Italia uno dei paesi meno competitivi a livello planetario e che, ritengo, siano propedeutici al fallimento che stiamo vivendo. In effetti, se andassimo a verificare il tessuto della normativa fiscale sul quale lo Stato pone la sua pretesa tributaria, ci accorgeremmo subito che è una normativa degna di uno stato fallito, quale è l’Italia.

Oltre al tema del livello della pressione fiscale che non ha eguali nel contesto mondiale, subito ci accorgeremmo che l’impianto normativo è una raccolta di norme per nulla omogenee, disorganiche, talvolta contraddittorie e per nulla attinenti allo sviluppo del contesto economico e sociale intervenuto nel paese nell’ultimo trentennio. In pratica, sono norme appiccicate l’una alle altre, senza alcuna soluzione di continuità e formulate non in base ad una visione strategica della società, dell’economia e più in generale della nazione; ma dallo stato di necessità delle finanze pubbliche, che negli ultimi decenni, sostanzialmente, hanno sempre espresso crescenti necessità di flussi finanziari (tasse) fino ad arrivare, negli ultimi anni, a toccare il punto di non ritorno.

In pratica, il (non) senso osservato dal legislatore in questo lungo periodo, sostanzialmente, è stato questo: mancano dei soldi? Bene, procediamo inasprendo la pressione fiscale e facciamo cassa con l’introduzione di nuove imposte o, molto più semplicemente, inasprendo quelle già esistenti. Questo, in buona sostanza è stato il criterio ispiratore di tutte le manovre fiscali che si sono varate in quasi un trentennio, trascurando del tutto gli effetti nefasti che questo modus operandi avrebbe prodotto. Ecco quindi che sono state introdotte un numero elevatissimo di imposte, tributi e adempimenti, proprio al fine di colpire nuova materia imponibili e, talune imposte, sono delle vere e proprie stranezze. Un normativa fiscale in perpetuo mutamento, oltre a disorientare il contribuente ed esporlo ad una crescente possibilità di cadere nell’errore, sempre pronto ad essere sanzionato, compromette anche la possibilità da parte degli operatori economici, di effettuare una pianificazione fiscale delle proprie attività scoraggiando gli investimenti.

Nell’ultimo periodo, ne costituisce un esempio clamoroso l’atteggiamento adottato dal legislatore nel limitare la deducibilità dei costi attinenti ai veicoli aziendali, che è passata dal 50% di pochi anni fa, al 20% attuale. In questo caso, tale limitazione è stata introdotta senza alcun criterio logico e tantomeno pertinente con il reale utilizzo delle autovetture all’interno dell’azienda, con il solo fine di limitare la possibilità di dedurre costi (delle autovetture, in questo caso) e quindi avere maggiore materia imponibile da colpire.

Trascurando il fatto che una minore possibilità di dedurre il costo delle autovetture, si traduce anche in un disincentivo all’acquisto di tali beni, rischiando di soffocare un mercato già in agonia, vale la pena segnalare che questo non è l’unico esempio al quale possiamo far riferimento. Ritornando al nostro ragionamento, introdurre un numero elevatissimo di imposte, significa anche dover produrre altrettanti adempimenti amministrativi a carico di quei soggetti obbligati al pagamento dei tributi: ossia le imprese e le famiglie. Quindi, questi, oltre a patire l’impatto vessatorio dei tributi pretesi dalla stato, subiscono anche un aggravio di costi amministrativi sia per la determinazione delle imposte da pagare, sia per la gestione amministrativa del rapporto fisco contribuente, che si sostanzia in un numero sempre crescente di adempimenti dichiarativi da svolgere e di comunicazione talvolta al limite del ridicolo.

Da questo punto di vista, in definitiva, possiamo affermare che si è arrivati ad un livello insostenibile di prelievo fiscale e con essa anche ad livelli altrettanto alti di adempimenti fiscali e amministrativi, proprio al fine di offrire alle casse dello stato un gettito sempre crescente e apparentemente idoneo al mantenimento di una apparato statale degno di uno stato Bolscevico. Per contro, gli effetti nefasti della crescente pressione fiscale, non sono stati affatto compensati con l’erogazione di servizi di crescente qualità (scuola, sanità, strade, infrastrutture, servizi sociali, burocrazia ecc. ecc.).

Anzi, potremmo agevolmente affermare l’esatto contrario, vista la pessima qualità con la quale lo Stato, il più delle volte, eroga i servizi alla popolazione. L’evasione fiscale a cui e si sta giustamente dichiarando guerra, trova terreno fertile proprio in un quadro normativo di questo genere che, a parer di chi scrive, dovrebbe essere profondamente riformato e reso sinergico ed aderente alle mutate condizioni economiche, sociali e culturali intervenute nel corso di questi anni, senza dimenticare la proiezione strategica della nazione per i prossimi 20/30 anni o forse più.

Ecco quindi la necessità di dover adottare un impianto normativo stabile, facilmente comprensibile, che consenta di tagliare il numero degli adempimenti e instaurando un rapporto di fiducia tra il Fisco e il contribuente, ormai venuto meno, e rimuovere l’ostilità dilagante nei rapporti tra gli organi preposti alla pretesa tributaria e il cittadino, creando anche le condizioni per un maggior senso civico. Questo, unitamente ad una preventiva diminuzione della spesa pubblica, e riducendo in maniera sistematica e ragionevole la pressione fiscale tramite un preventivo calo dell’inefficienza pubblica, consentirebbe anche una sistematica riduzione della pressione fiscale, posizionandola verso livelli di maggiore sostenibilità.

Semmai ce ne fosse bisogno, giova ricordare che ad indignare il contribuente e a stimolare l’infedeltà fiscale, contribuisce anche lo squallore di cui la nostra classe politica si rende quotidianamente protagonista.

Le cronache giornaliere ci raccontano di ruberie, tangenti, corruzione e privilegi sfrenati; di abusi e soprusi, perpetrati da una casta di potere che trae, più o meno indirettamente, vantaggio dalla spremitura fiscale di chi lavora onestamente e produce e crea ricchezza. Comportamenti che, oltre ad incorporare elementi di criminalità, non offrendo esempio di onestà e di sobrietà, risultano in netto contrasto con il ruolo esemplare a cui i nostri miserabili politici dovrebbero naturalmente confermarsi.

Senza poi considerare le migliaia di opere pubbliche presenti nel nostro paese, avviate, la maggior parte delle volte, per esigenze clientelari e poi neanche concluse. Opere che raccontano di storie di tangenti, di corruzione, di criminalità, di mafie e del malaffare diffuso al servizio della politica per comprare consensi elettorali. Miliardi di euro andati letteralmente in fumo.
E’ evidente che ogni contribuente, trovandosi dinanzi a un simile scempio e a tanto spreco, si interroghi sull’opportunità o meno di pagare tasse proibitive, sapendo dell’uso che verrà fatto dei propri sacrifici.

L’anatema secondo il quale un abbattimento della soglia di utilizzo del contante nelle transazioni commerciali, o addirittura, la totale eliminazione, possa costituire elemento idoneo a contrastare l’evasione fiscale, costituisce un vero e proprio veicolo propagandistico con il quale i politici tendono ad occultare i propri insuccessi.

Il messaggio che si vuole offrire è quello di ribaltare le responsabilità del fallimento di questa politica che sta conducendo la nazione in bancarotta, proprio sul contribuente presunto evasore. L’Italia fallisce per colpa degli evasori. In buona sostanza è proprio questo il senso di tanti spot propagandistici. Quando si parla di fenomeni evasivi, erroneamente, si tende a riferirsi all’evasione posta in essere dal piccolo commerciante che non emetterebbe lo scontrino fiscale. Noi non volgiamo asserire che ciò non sia vero e che non costituisca un problema.

Ma giova ricordare che per effetto dell’applicazione degli studi di settore, un ampia platea di imprese di piccole e medi dimensione (sommariamente quelle che il fisco individua con fatturati fino a 7,5 milioni di euro, oltre ad altri parametri) determinano il proprio reddito prescindendo dall’effettiva realizzazione. In pratica, tramite questi strumenti statistici che propongono livelli di redditività di un’azienda in base a numerosi parametri di riferimento, il fisco stabilisce quali debbano essere i ricavi ritenuti “congrui e coerenti” per una determinata tipologia di attività, a prescindere dal fatto che i ricavi individuati da tale strumento statistico, siano stati o meno realmente utilizzati. In buona sostanza, un imprenditore, durante il periodo di imposta, potrebbe porre in essere pratiche evasive, salvo poi dover comunque dichiarare ricavi ufficialmente non realizzati, vanificando quindi gli sforzi e i rischi corsi per occultare ricavi al fisco.

In altre parole, semplificando, non avrebbe senso evadere le tasse non emettendo scontrini fiscali se poi, in sede di dichiarazione dei redditi, si devono dichiarare anche ricavi non realizzati. Se il problema, come pare, fosse proprio questo, se ne dedurrebbe che lo strumento di accertamento fiscale d’eccellenza utilizzato dal fisco in questi anni, ossia lo studio di settore, è uno strumento del tutto arbitrario che non riesce a cogliere l’effettivo livello di ricavi di un impresa. Quindi uno strumento e un metodo di accertamento del tutto inattendibile, al punto da non contrastare l’evasione fiscale. Allora perché continuare ad utilizzarlo e a fondarci la pretesa tributaria in sede di accertamento?

Accanto all’evasione che Bersani vorrebbe combattere limitando o azzerando l’utilizzo del contante, c’è quella posta in essere dalla grandi multinazionali e dal sistema bancario che con strumenti apparentemente leciti, tendono ad occultare ricavi al fisco. Il più delle volte si tratta di strutture societarie complesse, spesse residenti in paradisi fiscali, che vengono utilizzate per compiere transazioni finalizzate proprio ad occultare ricavi al fisco e quindi essere soggetti ad una tassazione più mite. Queste operazioni, che arrecano danni miliardari alle casse dello Stato, non sono affatto poste in essere utilizzando moneta contante, bensì moneta elettronica. Si riesce così a spostare fiumi di denaro con un semplice clic e con altrettanta facilità ad occultare ricavi al fisco.

Il caso del Monte Paschi, banca tanto cara al Pd, ne costituisce un esempio eloquente. In questo caso, si parla di presunte tangenti per circa 3 miliardi di euro, che sono stati movimentati con un semplice clic. Con il denaro contante, non avrebbero mai potuto movimentare cifre del genere.
Affermare che la lotta all’evasione possa essere condotta eliminando il contate, senza aver rimosso i prodromi che la determinata, equivale a curare un paziente malato andando a prevenire il contagio di un organo sano, senza tuttavia aver rimosso e curato la malattia alla base della patologia.

Nel discorso che ci occupa ciò significa, semplicemente, escogitare ed affinare ulteriori forme di evasione, benché si sia stati inibiti dalla possibilità di utilizzo del denaro contante. Anzi, paradossalmente, potrebbero addirittura determinarsi effetti totalmente opposti a quelli che si vogliono combattere. Si pensi, ad esempio, a delle attività completamente sommerse del tutto sconosciute al fisco.

Queste continuerebbero a fare affari e a svilupparli sfuggendo del tutto al controllo statale e magari utilizzando come strumento di compensazione delle pratiche commerciali, una moneta alternativa a quella normativamente vietata o ridotta nel suo utilizzo.

Ciò, potrebbe addirittura costituire un motore di sviluppo delle mafie che, grazie ai propri affari, sarebbero capaci di approvvigionarsi all’estero di moneta alternativa e riversarla nell’economia sommersa nazionale, ramificandosi sempre più e ottenendo un controllo su quell’economia sommersa che proprio lo Stato intende combattere.

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