Sarebbe comprensibile, sebbene contrario alle consuetudini diplomatiche, se l’amministrazione americana avesse mostrato disappunto per il risultato delle elezioni tedesche. Ma no, ha dato in pubbliche escandescenze.
I ministri hanno tolto il saluto ai rispettivi colleghi, il presidente non si è congratulato per telegramma con il cancelliere, poco ci manca che l’ambasciatore rientri in patria.
Circa sessanta milioni di cittadini dell’Europa centrale hanno espresso un orientamento democratico non conservatore e non bellicista.
Hanno confermato al potere una coalizione rosso-verde pallida che ha prevalso di misura ma senza ricorrere a trucchi floridi (qualcuno se ne ricorda?).
Non è un risultato elettorale in armonia con la dottrina Bush ma neppure in collusione col terrorismo internazionale e non prelude a un riarmo atomico. Tuttavia sembra alla Casa Bianca e a qualche commentatore italo-americano uno sgarbo incomparabile.
E’ vero che sessant’anni fa la Germania perse le olimpiadi di Berlino e poi la seconda guerra mondiale e che da allora, al pari del Giappone, non è ridiventata una superpotenza (smentendo i fondati timori di G. Stalin).
Però non è lo Yemen e neanche il Guatemala o un altro protettorato sudamericano, con tutto il rispetto, bensì una roccaforte occidentale e una locomotiva del treno europeo sia pure in riparazione. Viceversa sembra, agli occhi del titano americano, un paese dell’est a sovranità limitata.
Era un principio, la sovranità limitata (qualcuno se ne ricorda?), che regolava i rapporti all’interno del sistema o campo socialista reale e che Breznev applicò fraternamente alla Cecoslovacchia dopo le prove fatte in Ungheria con i carri pesanti e in Jugoslavia con le risoluzioni del Cominform.
Paradossalmente, essendo il mondo divenuto unipolare, si direbbe che questo principio rimbalzi adesso da est a ovest a integrazione della dottrina Bush sotto il profilo delle relazioni intercapitalistiche.
Va bene, non esageriamo, è da escludere che le truppe di occupazione tornino a Berlino. Ma la dottrina Bush, che non ammette espressamente e preventivamente nessuna concorrenza alla supremazia americana di qui all’eternità, sta passo passo «scomponendo» l’occidente con una selezione non solo dei nemici ma anche degli alleati, in rapporto al loro grado di allineamento alle politiche militari, economiche, energetiche, ambientali, morali ed esistenziali dello Stato-guida (qualcuno se ne ricorda?). C’è della follia in questo metodo, altroché.
Si chiama vertigine del potere. Qualcuno dice che il cancelliere tedesco dovrà faticare molto per ricucire i rapporti oltreatlantico. Ma forse anche un nuovo presidente americano, un giorno o l’altro, dovrà faticare molto per suturare tutte le ferite aperte in giro per il mondo dal suo esaltato predecessore.
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