ROMA (WSI) – Una chiamata alle armi politiche contro i tanti populismi che si aggirano per l’Europa. Il presidente del Consiglio Enrico Letta si rivolge alla opinione pubblica dei più grandi paesi della Ue attraverso una intervista concessa allo spagnolo «El Pais», al polacco «Gazeta Wyborcza», al francese «Le Monde», al tedesco «Suddeutsche Zeitung», all’inglese «The Guardian» e a «La Stampa», invitando a scuotersi, ad abbandonare ogni «timidezza», perché se i movimenti euro-scettici dovessero ottenere un buon risultato alle elezioni Europee, l’Europarlamento ne uscirebbe «azzoppato».
Menomato nella capacità di imprimere una svolta, di incidere nella vita quotidiana dei cittadini. Al tempo stesso Letta rassicura l’Europa, dicendo che è sicuro di andare avanti e affermando con più nettezza del solito che il traguardo del suo governo è il 2015, anno in cui si tornerà a votare, con una competizione tra centro-sinistra e centro-destra. E in Italia la politica potrà recuperare forza, soltanto se saprà auto-riformarsi, con le modifiche costituzionali e legislative ma anche con la capacità dei partiti di «ringiovanire» le proprie leadership.
Nel suo studio di palazzo Chigi, Enrico Letta accoglie i giornalisti con un incipit scherzoso: «Su Berlusconi non vi dirò nulla, perché altrimenti titolate tutti su di lui!». Ma poi entra subito sulla questione che più gli sta a cuore: «Voglio cogliere questa occasione per lanciare un messaggio all’opinione pubblica europea: c’è una grande sottovalutazione del rischio di ritrovarsi nel prossimo maggio il più anti-europeo Parlamento europeo della storia , con una crescita di tutti i partiti e movimenti euro-scettici e populisti, in alcuni grandi Paesi e anche in altri più piccoli. E con un effetto molto pericoloso sul Parlamento europeo. Nella prossima legislatura la scommessa di fondo è passare dalla austerità alla crescita, una scommessa che il Parlamento più euroscettico della storia rischia di azzoppare. Un rischio del quale nei diversi paesi europei si parla, ma timidamente. Urge una grande battaglia europeista: l’Europa dei popoli contro l’Europa dei populismi. Questa è la posta in gioco nei prossimi sei mesi. E quando dico europeismo, so bene che non basta dire “più Europa” per avere un’Europa migliore».
Quale è la soglia oltre la quale i populisti europei diventano protagonisti e, per lei, pericolosi?
«Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25 per cento questo sarebbe molto preoccupante. Tutte le elezioni europee, dal 1979 fino ad oggi, sono state vissute come appuntamenti nei quali ogni Paese guardava il “suo” risultato , senza mai uno sguardo d’assieme. Stavolta sarà diverso e questo paradossalmente è la dimostrazione del successo del progetto europeo. Anch’io andrò a vedere il risultato del partito di Alternative in Germania».
In Italia è possibile che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle Europee?
«Questo rischio è molto forte. Le elezioni europee rappresentano il terreno migliore sul quale il Movimento Cinque stelle può esprimere il suo populismo. Non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo, o soltanto placcarlo».
Berlusconi va messo nel campo dei populisti?
«Be’, un po ’ sì…».
Un po’?
«Il Pdl, secondo me, è un mix. Berlusconi in questi anni ha tenuto insieme pulsioni populiste e altre più istituzionali e moderate. Ora, nella divisione tra falchi e colombe sarebbe interessante sapere cosa pensano le due anime sui temi dell’Europa».
In Italia il populismo ha avuto una lunga incubazione: Bossi è entrato in Parlamento nel 1987 e 23 anni dopo un elettore su tre ha votato “populista”, tra Cinque Stelle e Lega. Per essere più credibili nel contrastarli, non fareste bene a fare un’autocritica sugli errori e sulle tante non-scelte che hanno favorito questa escalation?
«Certamente. Non voglio essere malinteso: quando parlo di populismi, mi riferisco alle politiche e ai suoi rappresentanti, ma so che tra gli otto milioni che hanno votato per il Movimento Cinque Stelle ci sono tantissimi elettori che prima avevano votato per il Pd o per le formazioni moderate del centrodestra. È vero, il giudizio sul populismo non può essere auto-assolutorio e io non dirò mai: noi siamo i buoni e loro i cattivi. Ma il 90 per cento del successo dei partiti populisti in Italia è dato da una politica che ha impiegato troppo tempo a rinnovarsi e a tagliare i propri costi. Una delle chiavi del risultato delle prossime Europee sta nella capacità di far diventare leggi entro quella data, l’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti e la riforma elettorale. Sono ottimista: il governo ha varato (e la Camera approvato) un testo che abolisce il finanziamento pubblico e lo sostituisce con un incentivo al contributo personale del cittadino».
Basta per ridare l’onore alla politica italiana?
«No, serve anche un generale rinnovamento e ringiovanimento delle leadership dei partiti. Dobbiamo dimostrare che la politica in Italia è capace di auto-riformarsi e non serve la presa della Bastiglia».
I partiti anti- sistema hanno buon gioco nel dimostrare che le riforme istituzionali restano chiacchiere…
«Questo è il motivo per il quale io insisto tanto sul fatto che noi dobbiamo cambiare le regole istituzionali e lo dico contro i conservatori di casa nostra. Da noi ci sono tanti conservatori che dicono che questo Parlamento è delegittimato e quindi non può cambiare la Costituzione. In Italia serve un sistema, nel quale quando si vota, il cittadino elegge un Parlamento e non due con gli stessi poteri, come è oggi e nel quale siano presenti molti meno parlamentari. Obiettivi – lo ribadisco – che si raggiungono solo cambiando la Costituzione e dunque facendo le riforme, come del resto ci sprona a fare il presidente della Repubblica, Napolitano. Penso che entro l’estate possiamo chiudere la partita, con la riduzione dei parlamentari, la fine del bicameralismo, una nuova legge elettorale».
La grande coalizione può diventare un modello?
«In Italia noi stiamo vivendo un momento straordinario nel vero senso della parola. L’ordinarietà è il confronto centro-destra e centro-sinistra con regole e istituzioni che lo consentano. Io lavoro perché si cambino le regole e si torni nel 2015… quando sarà, nel 2015 si torni a un confronto elettorale nel quale i cittadini possano scegliere tra due opzioni e questa scelta porti poi alla espressione di un governo. Questo l’ho detto nel discorso con il quale ho preso il voto di fiducia alle Camere, l’ho ridetto anche il 2 ottobre, sono fermamente intenzionato e convinto di andare avanti su questa strada. Anche perché i risultati si cominciano a vedere. Nel 2014 l’Italia sarà uno dei Paesi più virtuosi d’Europa: centreremo contemporaneamente cinque obiettivi. Per la prima volta, dopo 5 anni, il debito generale scenderà. Avremo il deficit di nuovo sotto il 3% per il secondo anno di fila. Avremo per la prima volta la spesa pubblica primaria che scende. Si fermerà la crescita delle tasse, avviando il calo. Avremo il segno più sulla crescita e speriamo di fermare l’aumento della disoccupazione. Un incubo, come confermano i dati di ieri. È la battaglia cui voglio dedicare il massimo della determinazione».
Dunque, lei oggi è più sicuro di restare fino al 2015?
«Il primo ottobre, quando Alfano mi ha comunicato che i ministri del Pdl si dimettevano su richiesta di Berlusconi, io ho iniziato a fare gli scatoloni. Perché ho sempre pensato che in una situazione così complessa come quella italiana, non si può governare con un voto di maggioranza. Poi invece il Parlamento mi ha dato una fiducia larga e abbiamo vinto una battaglia molto complessa: dal 2 ottobre abbiamo maggiori forze e guardo al futuro con fiducia».
In mezzo ci sono le elezioni europee di maggio, per le quali lei chiama a raccolta gli europeisti di tutta Europa: concretamente come immagina questa battaglia?
«La battaglia deve essere fatta a testa alta, rivendicando le ragioni di un europeismo del quale stiamo sottovalutando la portata positiva. La profonda crisi economica e finanziaria è dovuta, non all’Europa o alle sue colpe, ma semmai ad un deficit di Europa. Per dirne una: sono serviti 27 Vertici europei, dal 2008, prima di arrivare alla frase di Mario Draghi sul salvare l’euro «whatever it takes», una dichiarazione che ha cominciato a farci uscire dalla crisi. Poca Europa significa che non ci sono le istituzioni giuste. Chi è l’Europa? Chi ci rappresenta? La risposta è sempre balbettante e questo è il tema vincente di Grillo, Marine Le Pen, Farage, di tutti i populisti europei. Lo dico francamente: le istituzioni europee sono molto, troppo frammentate: il presidente del Consiglio, della Commissione, il presidente di turno del semestre, l’Eurogruppo, il rappresentate permanente. Quando ho parlato con Obama a Washington gli ho detto: è importante che tu venga a Bruxelles. Finora, in cinque anni, Obama non è mai venuto».
Cosa le ha risposto Obama?
«Mi ha detto che verrà, ma il fatto che non sia mai venuto, mi dà l’idea che pure nella percezione americana, c’è una difficoltà nell’interpretare Bruxelles come luogo della rappresentanza europea. Provate a fare un sondaggio tra i cittadini europei con questa domanda: dimmi chi è il capo dell’Europa? Sarebbe interessante scoprire quanti rispondono Merkel, quanti Barroso. quanti Van Rompuy….».
Gli americani dicono da sempre che, se si vuole parlare con l’Europa, non c’è un numero di telefono…
«Certo, è il tema che ha sempre posto Henry Kissinger. Paradossalmente – e lo dico alla luce di quel che ho visto in sei mesi – io sono un grande tifoso di Van Rompuy e di Barroso, due personalità che stanno facendo bene, che hanno dimostrato una grande conoscenza delle istituzioni europee. Il problema non è legato alle singole personalità. Ad esempio, i 18 Paesi dell’Euro – a gennaio entrerà anche la Lettonia – non hanno “proprie” istituzioni e così finiscono per scaricare sulla Bce, l’unica istituzione forte a 18, responsabilità e pesi che dovrebbero essere delle politiche economiche. Avremmo bisogno di un ministro permanente dell’Economia dei 18, di politiche economiche a 18, di un bilancio, di un’istituzione che ci unifichi. Tutto ciò premesso l’Europa è una storia di successo. A me colpisce che nessuno rilevi con forza che l’Unione, per la prima volta, è presieduta in questo semestre da un Paese, la Lituania, che 23 anni fa faceva parte dell’Unione sovietica. Una straordinaria storia di successo che stiamo rovinando con una timidezza nella battaglia politica».
Ma per l’autoriforma dell’Europa servono decenni mentre le elezioni europee sono fra pochi mesi: come se ne esce?
«Sarà essenziale alzare la bandiera dell’Europa che lotta contro la disoccupazione, lanciando nei prossimi Consigli un grande Progetto giovani: questo parlerebbe a tutto il continente. E ancora: il Consiglio europeo di febbraio si occuperà di politiche economiche legate all’industria. In quella occasione potremo dare un messaggio burocratico, oppure dopo un “girone di andata” nel quale per 10 anni si era teorizzato che esistevano soltanto finanza e servizi, iniziare un virtuoso “girone di ritorno” per reindustrializzare, internazionalizzando le imprese: un’azienda va in Cina perché le interessa quel mercato e non per riportare i prodotti uguali in tutto e per tutto come li ha fatti lì».
L’Europa non continua ad essere affetta da lentocrazia?
«Mettiamola così. Se fossi dittatore europeo per mezzora, farei due editti. Col primo proporrei una cosa che sarebbe immediatamente comprensibile e condivisa dall’opinione pubblica, l’unificazione del presidente della commissione e del presidente del consiglio europeo in un’unica figura, una modifica che si può fare senza cambiare i trattati. Basterebbe nominare la stessa persona. Una unione personale, diciamo così delle due funzioni. So benissimo che dal punto di vista della perfezione giuridica bruxellese, dico una specie di bestemmia perché il presidente del consiglio svolge un ruolo di gestione, mentre il presidente della commissione ha un altro ruolo. Tra l’altro un ruolo che Barroso – come ho visto nell’ultimo consiglio europeo – sta svolgendo con un approccio europeista molto forte, che mi è molto piaciuto».
Col secondo editto cosa farebbe?
«Abolirei tutti gli acronimi europei, una cosa che fa impazzire noi e voi, sono incomprensibili per tutti. Sono la bussola per la burocrazia di Bruxelles, con la quale tu invece ti perdi: Efs,Esm, Sixpack, twopack. Bisogna chiamare le cose col loro nome».
L’emigrazione clandestina e i migranti sono un ottimo propellente per i populisti…
«Con una gestione malaccorta di questi temi si rischia di perdere le elezioni Europee. Non è un caso che Grillo, restio su tante questioni a seguire politiche classicamente di destra, su tale questione abbia completamente sconvolto la sua bussola, prendendo la posizione che è stata di Bossi, Fini e anche di Berlusconi. Spiazzando i suoi stessi elettori. Sapendo che, in un Paese solidale come l’Italia, la paura del diverso è ancora molto forte. Eppure, ora che sono trascorsi sei mesi dalla nascita del mio governo, resto molto fiero della decisione di aver scelto Cecile Kyenge come ministro dell’Integrazione, una decisione che presi in solitudine. La chiave è questa: o lo risolviamo tutti assieme in Europa, oppure questo problema non si risolve. Nell’ultimo Consiglio il tema è stato affrontato in maniera più consapevole».
Al termine del recente Consiglio europeo perché lei ha giudicato «sufficiente» la risposta dell’Ue?
«Sufficiente non vuol dire ottimo, ma mi aspetto che si possa migliorare. Però ho già visto il Consiglio europeo diventare un po’ come un consiglio dei ministri di uno stato membro, dove se scoppia un problema all’improvviso, cambi l’ordine del giorno, lasciando perdere le altre questioni. Finalmente è accaduto anche a livello europeo. Nella decisione di Barroso di venire a Lampedusa e di mettere alcune risorse in più, ho visto una reale volontà di affrontare la questione. Ho detto sufficiente perché penso che dobbiamo fare di più sia a livello nazionale che a livello europeo. E anche con i paesi terzi noi dobbiamo avere un approccio molto più forte di quello tenuto in questi mesi».
Quale sarà l’impatto di Datagate nei rapporti con gli Stati Uniti?
«Noi ci aspettiamo che ci sia il massimo disclosure e son sicuro che ci sarà, dopo ciò che ho ascoltato dagli interlocutori americani con cui ho parlato, a cominciare dal segretario di stato Kerry. I chiarimenti arriveranno perché l’alleanza tra Stati Uniti ed Europa è fondamentale, deve assolutamente continuare».
È vero che su questo tema lei e Cameron avete litigato?
«Questa storia è girata, ma non so come sia uscita e non è vera. Mentre eravamo a cena, entrambi ci siamo detti: ma ti risulta che abbiamo litigato?».
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