Per capire quanto il mondo sia cambiato basta scorrere la classifica delle banche più grandi per asset totali aggiornata da S&P’s. Le prime cinque posizioni sono occupate da istituti finanziari dell’Estremo oriente e di questi i quattro più grandi sono cinesi.
Lo scenario muta solo leggermente se invece degli asset in gestione viene presa in considerazione la patrimonializzazione Tier 1. In particolare, nella classifica aggiornata al 2020 di The Banker (Top 1.000 World Banks 2021), le prime quattro posizioni rimangono appannaggio delle “big four” cinesi seguite dalle statunitensi, dalla britannica Hsbc e dalla giapponese Mitsubishi UFJ Financial Group.
Nella ormai sbiadita foto del 2000, invece, la prima banca cinese arrivava solo in decima posizione. Negli ultimi venti anni nemmeno i colossi Usa hanno tenuto il passo. Manca l’Europa. Se da un lato è evidente la crescita del sistema bancario cinese, dall’altro emerge la fatica dell’Europa.
L’Italia poi, figura ancora più indietro: per trovare banche italiane bisogna scorrere la classifica fino alla posizione 26 dove c’è Intesa Sanpaolo e alla posizione 33 dove si colloca Unicredit. A guardare queste classifiche fanno ancora più pensare le cessioni di banche italiane (Bnl, Cariparma e Credito Valtellinese) alle francesi Bnp Paribas e Credit Agricole, tra le prime dieci nella classifica di S&P’s o la situazione in cui da anni si trova la più antica banca al mondo, il Monte dei Paschi di Siena.
Ma, visto che siamo in Europa, è a una prospettiva europea che bisognerebbe guardare per la creazione di un campione in grado di contrastare i big cinesi e statunitensi. La prospettiva europea è però finora mancata, gli ostacoli alle fusioni cross-border sono ancora elevati mentre Unione bancaria e Mercato unico dei capitali sono cantieri appena aperti. Una situazione che rende difficile creare quelle sinergie transnazionali senza le quali, come ha sottolineato in diverse occasioni l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo Carlo Messina (che ha riavviato il risiko domestico delle fusioni con l’operazione su Ubi) rendono fattibili queste operazioni.
L’Europa rischia quindi di accumulare ulteriore ritardo rispetto ai competitor Stati Uniti e Cina. Essere grandi aiuta. La Banca d’Italia da tempo preme per favorire aggregazioni tra gli istituti italiani, soprattutto quelli piccoli che più soffrono durante i periodi di crisi. Il governatore Ignazio Visco ha dichiarato, all’assemblea annuale dell’Associazione bancaria italiana (Abi), di seguire con attenzione i piani di ristrutturazione e le possibili aggregazioni “per assicurare che esso conduca a intermediari più solidi e maggiormente in grado di sostenere l’economia e favorirne il ritorno su un sentiero di crescita elevata e duratura”. Ma ci sono altre ragioni che rendono la crescita dimensionale un percorso desiderabile, come la riduzione dei costi medi a protezione dei margini, la possibilità di sostenere i rilevanti investimenti richiesti dalla trasformazione digitale, il volume di dati da gestire e analizzare.
Nello studio Twin Bank: la sostenibilità al centro della trasformazione digitale, che si pone come orizzonte temporale il 2025, gli analisti di Accenture affermano che “la realizzazione di acquisizioni e fusioni improntate alla trasformazione dei modelli operativi e di business permetterà di raddoppiare le sinergie di costi/ricavo” e che “saprà innovare solo chi riuscirà a sperimentare velocemente e a scala, combinando nuovi modelli di business con un numero sempre maggiore di partner e tecnologie. Gli investimenti in R&D nel sistema raddoppieranno”.
Infine, sempre lo studio Accenture sottolinea la necessità di valorizzare i dati visto che “il volume dei dati raccolti ed elaborati incrementerà di 25 volte rispetto a oggi”.
Più clienti, più dati, più forza è l’equazione vincente per le banche di oggi per fronteggiare la concorrenza delle neo-banche che gli stanno togliendo il terreno da sotto i piedi, a cominciare dai settori più classici come i pagamenti e il credito.
Secondo i dati del Report Neobank 2021 di Exton Consulting, nel 2018 c’erano “60 digital challenger banks”. Nel 2020 sono quadruplicate a 256. E le costrizioni imposte dal Covid hanno aumentato l’interesse per questi player, soprattutto da parte dei più giovani. Sono banche che possono competere in ogni parte del pianeta, cosa che per il settore bancario tradizionale è impossibile. E possono così andare a raccogliere clienti anche dove risiede la maggioranza di non bancarizzati. Nubank è forse il nome più conosciuto e i suoi numeri ne spiegano bene la potenzialità e confermano l’importanza delle dimensioni nel mondo bancario di oggi: oltre 34 milioni di clienti. Intesa Sanpaolo, il principale gruppo italiano, ne ha circa 13,5 milioni.
L’articolo integrale è stato pubblicato sul numero di settembre del magazine Wall Street Italia