L’Italia può ringraziare l’euro, ecco i motivi
di Gianfranco Fabi
L’abbandono delle politiche di svalutazione della moneta, che avevano caratterizzato gli anni 80 e 90 del secolo scorso, ha costretto l’industria italiana a trovare nuove strade per conquistare competitività: con risultati molto positivi soprattutto per le esportazioni.
La moneta unica europea all’inizio di quest’anno ha compiuto vent’anni. E gli accordi di Maastricht che ne sono alla base sono stati sottoscritti proprio trent’anni fa, il 7 febbraio del 1992.
Bisogna dire che il progetto dell’euro non è stato un cammino trionfale, vi sono stati sbagli ed irrigidimenti, ma è stato un momento importante, anzi decisivo nel processo di progressiva integrazione europea. La strategia di fondo era stata impostata già all’inizio degli anni ’80 del secolo scorso dall’allora presidente della Commissione europea, Jacques Delors che concepiva l’integrazione come un missile a tre stadi, il primo con la creazione del mercato unico e la libera circolazione dei capitali, il secondo con la moneta comune, il terzo con una sempre più stretta unità politica che sarebbe stata spinta proprio dall’integrazione economica.
E così è stato, anche se l’unità politica ha fatto sicuramente passi avanti, ma è ancora lontana dall’aver raggiunto un equilibrio ben definito come quello di Stati che hanno alle spalle secoli di storia. Resta il fatto, tuttavia, che elementi importanti come il varo nei mesi scorsi del grande progetto Next generation Eu con finanziamenti per 750 miliardi di euro sono stati resi possibili proprio grazie all’avanzamento del processo di integrazione.
L’Italia può ringraziare l’euro e la sua dinamica perché, insieme agli altri paesi del Sud, avrà una parte importante di questi interventi.
E peraltro negli ultimi anni non sono mancati effetti positivi sulla crescita economica. Fino all’avvio del processo unità monetaria l’Italia affidava alla svalutazione della moneta la soluzione, peraltro costosa e temporanea, dei problemi di competitività della propria industria. L’arrivo dell’euro ha in pratica costretto l’economia italiana a scegliere un’altra strada, quella dell’ammodernamento dei sistemi produttivi, dell’automazione, della rivoluzione digitale.
Negli ultimi dieci anni l’Italia ha registrato una bilancia commerciale con un attivo crescente, conquistando il quinto posto nel mondo. Grazie a interventi finanziari e organizzativi, con il piano denominato Industria 4.0, la manifattura italiana è cresciuta di più di quella che viene costantemente definita la locomotiva tedesca, in termini sia di valore aggiunto, sia per produttività ed export.
Settori come quello agro-alimentare, la farmaceutica, la meccanica, la nautica da diporto hanno fatto registrare progressi più che significativi nelle esportazioni nonostante le difficoltà sui mercati. E le esportazioni, che in teoria avrebbero dovuto essere penalizzate da una moneta forte, hanno trainato una crescita che ha permesso all’economia italiana di affrontare positivamente gli effetti negativi delle misure contro la pandemia. Significherà qualcosa l’aumento di oltre il 6% del Prodotto interno lordo lo scorso anno?
Questo non vuol dire che quello della moneta unica europea sia il migliore dei mondi possibili. Vuol dire semplicemente che, così come nella vita, gli errori di gioventù si possono perdonare se aiutano a trovare la strada giusta. E l’Europa dopo il tempo delle rigidità, dei parametri obbligati, dei piani di risanamento ha saputo dare spazio alla flessibilità, agli aiuti a lungo termine, a quell’elemento particolarmente importante che è la solidarietà.
Ma gli esami non sono finiti, anzi adesso vengono i più difficili. Perché è necessario mandare in pensione non tanto l’euro, quanto i trattati di Maastricht. E rifondare su basi nuove il Patto di stabilità e crescita, sospeso due anni fa di fronte all’emergenza sanitaria.