di Ilaria Caprioglio*
Nel mondo dello sport si parla sempre più spesso di professionismo precoce, promosso dalle società sportive e alimentato dalle aspettative genitoriali. L’approccio dei genitori con le discipline che i figli intendono intraprendere è fondamentale. Il professionismo precoce e le aspettative genitoriali hanno spesso generato una distorsione della realtà sportiva, favorendo atteggiamenti competitivi poco salutari dal punto di vista fisico e psicologico. Un genitore deve essere disposto ad accettare il proprio figlio per quello che è, indipendentemente dai risultati che otterrà.
Molti adolescenti hanno la tendenza ad abbandonare qualsiasi attività fisica in quanto da bambini hanno vissuto lo sport come un’imposizione da parte di genitori ambiziosi che accarezzavano l’idea di avere un futuro olimpionico in famiglia. L’overparenting, cioè la propensione a ossessionare i propri figli con pretese e aspettative, sta dilagando in ambito sportivo, scolastico e sociale. Il desiderio di coltivare un campione spinge genitori, convinti di riconoscere indizi di straordinarietà nel figlio, a spendere tempo e denaro per uno sport intrapreso a quattro o cinque anni e ben presto, con la complicità della società sportiva, divenuto totalizzante, per le ore consumate negli allenamenti, e fonte di stress per le gare, vissute dal giovane con l’ansia da prestazione nel timore di deludere allenatore e parenti.
L’obiettivo individuale in ogni competizione è quello di vincere sugli altri. Se tale obiettivo negli ambienti sportivi e agonistici viene inculcato, come accade spesso, disgiunto da qualsiasi altro intrinseco valore dello sport, la via alle condotte scorrette, fisiche o psicologiche, si apre spontaneamente come una strada maestra: pur di ottenere la vittoria a ogni costo, saranno utilizzati mezzi che costringono la fisiologia a funzionare in condizioni extra normali. Anche in questo caso è fondamentale il ruolo dell’educatore, ruolo che, nell’ambito sportivo-agonistico, è esercitato dall’allenatore, dal preparatore atletico e, a vario livello, da ogni altra figura che si trovi a interagire con lui. Non bastano né un ottimo metodo né degli ottimi risultati se non cambia l’approccio educativo verso il bene personale dell’atleta, che non deve coincidere con il solo successo sportivo. L’atleta è l’anello debole in quanto non può che obbedire a ciò che gli viene comunicato: la sua carriera è condizionata dalle sue capacità ma, ancor più, dalle scelte delle Società e delle Federazioni.
Cosa si può imparare dallo sport
Lo sport inteso come metafora di vita, che insegna a realizzare i propri desideri con passione, lealtà, impegno, sacrificio, reagendo davanti alle sconfitte e lavorando in squadra nel rispetto dei propri compagni è un concetto da riproporre, ripristinando l’eccellenza della disciplina a partire dall’analisi della figura dell’insegnante. A qualsiasi livello e in qualsiasi campo accade, purtroppo, di trovare insegnanti che nel rapporto con gli allievi non infondono passione, ma emettono solo inappellabili giudizi. Uno degli errori più diffusi è quello di trasformarsi in critici mentre non dovrebbero far trasparire mai, neanche per un attimo, quella che potrebbe essere una loro preferenza e non dovrebbero offendere mai chi sbaglia. I giovani non hanno gli stessi ritmi di crescita, ognuno ha i propri che determineranno la riuscita come atleta ma, soprattutto, come essere umano.
È estremamente importante soffermarsi sul significato di “mens sana in corpore sano” e chi insegna deve essere consapevole che il cervello non può contemplare due stati d’animo differenti contemporaneamente: un allenatore deve lavorare per ottenere il benessere, rispettivamente di mente e corpo, di un atleta, portandolo a vivere anche la più ferrea disciplina con serenità. Solo in questo modo sarà in futuro un individuo eccellente. La didattica rappresenta uno scambio continuo fra allenatore e sportivo, dove il primo è costretto a mettersi continuamente in discussione in quanto, ogni volta, si trova davanti una persona diversa e, soprattutto, fragile poiché in evoluzione.
In merito al dilagare dei disturbi del comportamento alimentare, non va sottovalutato il rischio di infettività presente in certi ambienti sportivi: il giovane, talvolta, corre il rischio di ammalarsi in quanto l’allenatore non possiede gli strumenti per comprendere il peso di parole spesso scagliate, con noncuranza e superficialità, su giovani menti e corpi in trasformazione. Un atleta si guarda in primo luogo in volto: si corregge dagli occhi e non dalle gambe, solo così si rende un giovane orgoglioso di essere un campione ma, soprattutto, di essere una persona rispettosa e consapevole. Soltanto in questo modo la maggior parte dei ragazzi e delle ragazze, che non diventeranno olimpionici, impareranno ad accettare con serenità i propri limiti, convivendo con essi, e potranno procedere liberi, privi di profonde cicatrici, verso nuovi percorsi e nuovi traguardi della propria esistenza. Un sano insegnamento deve forgiare un giovane potenziato, e non devastato dall’esperienza sportiva.
* Membro del Segretariato ASviS, si occupa di progetti di alta formazione per le Pubbliche Amministrazioni. Avvocatessa e sindaca di Savona dal 2016 al 2021, ha ottenuto per la sua Città, prima in Europa, la certificazione LEED for Cities. Relatrice sui temi ESG presso il Parlamento europeo e le Nazioni Unite.