(WSI) – Ci sono i film che piacciono al pubblico e quelli che piacciono ai critici. Tra i dati macro accade lo stesso, con il pubblico che si appassiona e si divide sull’Employment Report e i market economist che danno spesso più importanza all’indice ISM, considerato più completo e più anticipatore.
L’ISM uscito mercoledi’ ci descrive un’economia americana ancora in buona crescita, che assume personale con equilibrio, accumula scorte ma senza esagerare e paga materie prime e semilavorati, anche questa volta, più cari del mese precedente, a conferma di una domanda complessiva che si mantiene robusta. Anche la componente più anticipatrice, i nuovi ordini, si mantiene a livelli molto buoni.
Ecco quindi un quadro che sta grosso modo a metà strada tra l’ottimismo indefettibile delle banche centrali (di tutte, non solo della Fed) e il pessimismo a tratti plumbeo che prevale in larghi settori del mercato e dei media.
Le banche centrali parlano infatti di espansione solida e duratura anche in caso di petrolio a 50 dollari. Nei mercati, per contro, prevale l’idea che l’espansione è già finita e che la scelta, da qui in avanti, è tra un atterraggio morbido, se va bene, o uno duro o durissimo se va meno bene. Nella disperata noia di mezza estate, del resto, la passeggiata del petrolio a 50 dollari, per quanto tirata per i capelli su pretesti molto deboli, ha goduto di enorme risalto sui media, a loro volta disperati per il vuoto di notizie quando non impegnati, come in America, a soffiare sul fuoco preelettorale e a prepararci all’avvento di madonna Povertà.
Se anche i prossimi dati manterranno, nel complesso, la tonalità positiva dell’ISM, o avranno semplicemente un tono intermedio, la Fed non esiterà, il 21 settembre, a portare i tassi all’1.75 per cento, come da programma già da tempo concordato con i mercati. Chi specula sulla possibilità che la Fed si fermi adesso lo fa a suo rischio e pericolo. Con buona pace delle tesi revisioniste (serpeggianti nei mercati obbligazionari) per cui, di fronte a un rincaro del greggio bisogna adottare politiche monetarie accomodanti, ricordiamo che la dottrina ufficiale della Fed è che bisogna essere da neutrali a leggermente restrittivi.
La visione di un’economia globale che scala temporaneamente una marcia o due, ma non si ferma, presuppone naturalmente che petrolio e terrorismo non facciano danni rilevanti. Sul petrolio i danni veri non sono quelli che i mercati si fanno da soli immaginandosi chissà che cosa (come è stato in agosto) ma gli effettivi eventuali tagli dell’offerta. Provando però a ragionare su dati concreti non è chiaro chi possa avere interesse, fino alle presidenziali di novembre, a provocare incidenti.
Chavez, per esempio, tifa Bush (i sindacati americani, che appoggiano Kerry, sostengono per antichi legami l’opposizione venezuelana). I sauditi non avrebbero nessun vantaggio dall’elezione di Kerry. Putin ha a che fare con una recrudescenza terroristica e ha bisogno che l’America lo lasci fare (e in più tifa notoriamente Bush). Resta la galassia terrorista, che ovviamente vota contro Bush, ma proprio per questo, riteniamo, non andrà a fargli il favore di un attentato proprio prima del voto, sapendo che la reazione degli elettori, diversamente da quanto accadde in Spagna dopo l’11 marzo, sarebbe un plebiscito a favore del presidente.
In teoria i terroristi (che si dimostrano sempre più dei fini politologi che entrano di precisione nella dialettica politica dell’Occidente) dovrebbero riuscire a fare salire il prezzo del greggio, per indebolire Bush, evitando però con cura azioni tipo 11 settembre. Non è molto facile. Gli oleodotti, come dimostra l’Irak, saltano in aria velocemente, ma altrettanto velocemente vengono riparati.
Se questo è il quadro, è difficile ipotizzare per i mercati, in particolare valute e borse, l’uscita dalle fasce d’oscillazione degli ultimi mesi. Per il dollaro, gestito dal Tesoro e quindi da un ministro repubblicano in campagna elettorale, vale ora più che mai la richiesta di Karl Rove, l’eminenza grigia della campagna, di non dare argomenti a Kerry con un’altra svalutazione. La richiesta, formulata in febbraio, ha avuto seguito pieno e completo. Non è un caso che, da marzo a oggi, il dollaro non si sia più mosso. E la nostra scommessa, se non si è già capito, è che non si muoverà fino al 4 novembre.
Quanto alla borsa, è vitale, politicamente, che non scenda. Ma per essere sicuri che non scenda è meglio evitare che salga. Restano i bond. Finchè salgono Kerry non può dire niente. Se scendono, bisogna che sia perchè l’economia riaccelera e non certo, per ipotesi, per una perdita di fiducia del resto del mondo o per una ripresa dell’inflazione. La nostra impressione è che la Fed stia strizzando l’occhio al rally dei bond, forse per motivi politici, ma sicuramente perchè i bond forti azionano il motorino di riserva dell’economia americana, ovvero case e auto, che non sono gloriose come gli investimenti in nanotecnologia o software ma fanno comunque comodo.
Avvertiamo però che la Fed, con i bond, può essere molto spregiudicata. L’anno scorso, tra maggio e giugno, Greenspan in persona strizzò l’occhio ai bond, portandone il rendimento al 3.30%, salvo poi scaricarli brutalmente subito dopo, quando non ci fu più bisogno di loro.
*Alessandro Fugnoli e’ strategist di Abaxbank