ROMA (WSI) – Sensazionalismo, bufale, false notizie che circolano in rete a volte anche in modo ossessivo e che vengono riprese da chi, ingenuamente, non ne verifica l’autenticità. Nel dedalo di Internet è sempre più difficile distinguere ciò che è vero da quanto è invece inventato di sana pianta.
E così, un articolo pubblicato sulla rivista Esquire, pone una questione che fa riflettere: “The Year we broke the Internet”.
In poche parole, Internet è vicina al punto di rottura? Quella che è stata una indiscutibile rivoluzione potrebbe prima a poi rivelarsi la grande bufala degli ultimi decenni?
Basti prendere come esempio le recenti immagini sull’Egitto che hanno fatto il giro della rete a livello mondiale. Immagini, precisamente, delle piramidi e della Sfinge ricoperti di neve, condivise su Facebook e Twitter, decine di migliaia di volte.
Per alcuni, le foto sono state una chiara prova del nove del riscaldamento globale. La condivisione è stata però, più che altro, frutto di un “modus operandi” sempre più diffuso tra gli utenti di Internet. O meglio, di un atteggiamento mentale. Non importa se ciò che si condivide sia vero o falso. Il diktat sembra essere: per prima cosa condividi, colpito dalle immagini spettacolari di turno; poi, se hai tempo, ti poni qualche domanda. Meglio ancora: lascia che qualcun altro faccia le domande.
La verità è che non c’è stata alcuna nevicata sulle Piramidi e sulla Sfinge. L’unica cosa vera è il simbolismo. Internet, come la Sfinge, è una bestia vorace che mangia vivo chiunque non riesca a risolvere l’enigma.
Come al solito, è il business del click che ha portato Internet ad abdicare al ruolo di contenitore di una informazione trasparente e libera. I vari siti hanno infatti come esigenza primaria quella di incrementare il traffico: dunque, l’importante è far girare in rete informazioni che vengano il più possibile divulgate – e dunque cliccate -, al fine di stimolare l’interesse degli inserzionisti pubblicitari e dunque di fare, alla fine, più soldi. Tutto il resto è passato in secondo piano.
Le foto dell’Egitto non sono state l’unica bufala a dirottare i social media. Ormai nessuno si scusa più – ricorrendo alla tradizionale rettifica – per il fatto di considerare ormai la verità un optional. Gli errori, le falsità e le bufale hanno dato vita a un grande business, guidato dalla convinzione che il grande traffico assolva tutti i peccati e che il successo sia una virtù primaria. La fretta e la confusione sono diventati parte integrante del sistema.
Ryan Grim, capo dell’ufficio di Washington dell’Huffington Post, ha spiegato la situazione al New York Times, affermando che “il metabolismo veloce mette le persone che hanno verificato la veridicità dei fatti in una posizione di svantaggio”. D’altronde, se “si lancia qualcosa in rete senza aver controllato i fatti, pubblicando per primi la notizia in circolazione, si ottengono milioni e milioni di visite e, se dopo viene dimostrato che la notizia è falsa, quelle visite comunque continueranno ad esserci. Questo però è un problema. Gli stimoli che vengono dati al pubblico, infatti, sono tutti sbagliati”.
In altre parole, la regola è diventata: “pubblicare” o perire.
C’è però un elemento in comune che caratterizza tutte le bufale che girano in rete: tutte appaiono confezionate in modo quasi impeccabile, fin troppo affidabili. Molti lettori, poi, prendono per oro colato tutto ciò che leggono e non si prendono il disturbo di andare a verificare la veridicità delle fonti: in questo modo, fanno un grande favore al business, con i loro clic e le varie condivisioni.
I lettori sono creduloni e i media sono inetti, al punto da far circolare immondizia, in modo che tutti possano andare a letto felici.
Jonah Peretti di BuzzFeed conferma il fenomeno ammettendo che la sua società cerca sempre profili di candidati che “capiscano realmente come vengono condivise le informazioni su Twitter, Facebook, Instagram e su altre piattaforme emergenti, perché in alcuni casi tali capacità sono importanti proprio quanto il fatto di avere un tradizionale talento nel riportare una notizia”.
In pratica si sono creati un circolo vizioso, una spirale infernale, in cui tutta la gamma di informazioni è disponibile. Ciò che si evince, poi, in questa ansia di notizie, è che “non c’è bisogno di scrivere di più, basta scrivere un buon titolo. Se poi la notizia si rivela una bufala, allora bisogna riconfezionarla e venderla di nuovo”.
La fusione tra abbondanza di notizie false e notizie vere e proprie ha provocato il caos. Si tratta di un processo che non è nato dal nulla, ma che è stato sviluppato intenzionalmente, collocato in una soglia tra realtà e finzione, da parte di un gruppo di siti autorevoli, che purtroppo, tra le macerie dei media tradizionali, hanno istituito un modello finanziario fino a oggi sostenibile.
Man mano che il “Grande virus” si espande, i media tradizionali rimescolano le notizie per tenere il passo. In pratica, stiamo assistendo ad una ‘BuzzFeedificazione’ dell’intero spettro dei media; persino il New York Times non risulta più immune da questo processo, avendo recentemente firmato un accordo di condivisione dei contenuti con BuzzFeed.
I lettori, ormai, non potranno trovare una pubblicazione importante, senza che ci sia, al contempo, anche una sezione dedicata alla condivisione di discutibili contenuti virali.
Farhad Manjoo del Wall Street Journal, ha commentato il fenomeno dei contenuti virali, affermando che quello che ha ormai preso piede “non è un nuovo modello di giornalismo”. Si tratta, piuttosto, spiega Manjoo, di “impacchettare il contenuto che genera entrate a basso costo con altre notizie più costose. Tale sistema è diventato il modello su cui si basano praticamente tutti i siti Web, da Gawker, BuzzFeed, all’Huffington Post, e a decine di altri siti più piccoli”.
L’articolo di Esquire termina con un monito ben preciso: “Dobbiamo rinsavire e renderci conto che abbiamo ancora molto per cui lottare. Proprio come racconta il mito di Ulisse, che per non andare in guerra si finse pazzo, arando il suo campo con il sale. Poi, scoperto da Palamede, che gli mise il figlio davanti, Odisseo tornò in sé, ricordandosi che aveva ancora qualcosa per cui combattere”.