Hamad Saud al-Sayyari, governatore della Saudi Monetary Agency, come dire la Banca centrale di Riad, semina sconforto nei giorni scorsi nel mondo dei grandi gruppi bancari internazionali: il regno saudita sospende fino a nuovo ordine la concessione di licenze per l’apertura di filiali, al fine “di valutare l’impatto” della riapertura del mercato saudita all’Occidente. Lo stesso al Sayyari conferma che da qualche tempo le operazioni sono bloccate: ma è dagli anni del primo boom petrolifero negli anni Settanta che l’Arabia Saudita tiene chiuso a doppia mandata il suo mercato. E dal giorno della riapertura pochi mesi addietro, poco più di una decina di gruppi internazionali riescono ad approfittare della riapertura. Fra i fortunati Deutsche Bank, Bnp Paribas (di cui fa ora parte Bnl) e National Bank of Kuwait. Manifestato l’intenzione di tornare anche Dubai Islamic Bank e Citigroup.
Unione monetaria entro il 2010
Quello che non è chiaro agli analisti internazionali è il motivo profondo della decisione di Riad, ma è certamente legato in primo luogo alla motivazione ufficiale, una valutazione dell’impatto della riapertura, ma anche alla necessità di fare chiarezza su quello che si potrebbe definire il “mercato comune bancario” dei Paesi del Golfo. Per questo chi guarda alle finanze mondiali con occhio attento è in attesa di seguire da vicino il meeting di dicembre del Gcc, il Gulf cooperation council, che deve fare il punto sull’integrazione dei sistemi monetari in una vera e propria epocale unione monetaria. Un’integrazione che sulla carta dovrebbe avvenire entro il 2010, ma sulla cui realizzazione in tempo utile si nutrono ora dubbi. Li nutre in particolare l’Oman, il primo dei sei Paesi del Gcc a manifestare la convinzione che la scadenza sia troppo vicina. Al Sayyari ritiene che sia ancora presto per parlare di cambiamenti nel programma originario, ma ci sono pochi dubbi sul fatto che una decisione di qualche tipo possa essere presa a breve.
Il ritorno delle banche a Riad
È piuttosto evidente che gli argomenti di cui ci stiamo occupando sono correlati. Il ritorno delle grandi banche internazionali nell’Arabia Saudita è ovviamente calcolato in vista di questa storica integrazione monetaria, una sorta di euro petrolifero. Ma, al di là dell’integrazione, il discorso può essere semplificato al massimo con una banale considerazione: è da lì che nascono i soldi, meglio ancora, è da lì che sgorgano. E in effetti tutte le banche del settore vedono crescere i loro “assets” a ritmo vertiginoso. Si legge molto di Cindia, dell’impatto sull’equilibrio globale del surplus dei saldi commerciali di Cina, India e delle altre economie emergenti dell’Est, surplus che finisce in titoli del Tesoro americano o Bot italiani o tedeschi, in quello che una splendida inchiesta di sedici pagine su tali equilibri l’Economist definisce un “vero piano Marshall” del quale sono gli Stati Uniti a beneficiare e i ricchi pagatori sono Cina, India, Corea del Sud, e così via. Si legge poco, al contrario, del contributo che il nuovo boom petrolifero d’inizio millennio sta dando all’economia mondiale. Non è un caso che la sterlina, che sulla base di criteri monetaristici puri non dovrebbe avere le quotazioni attuali, sia arrivata a un saggio di cambio di una sterlina per quasi due dollari. La sterlina è rafforzata dal costante afflusso di petrodollari come si chiamano un tempo i soldi del surplus derivante dalle esportazioni petrolifere. Richard Portes, professore di economia alla London Business School, sta per pubblicare un libro sull’argomento, basato sulla ricostruzione del flusso di petrodollari.
La macchia di petrolio sul surplus
Che Londra sia il preferito porto d’approdo di quei soldi non si può mettere in dubbio. Secondo dati ufficiali non c‘è società nell’indice delle prime 250 del Financial Times Index dello Stock Exchange britannico (FTSE 250 Index) che non abbia una cospicua “macchia di petrolio” nel suo capitale. Secondo Eddie O’Sullivan, un esperto del settore petrolifero recentemente citato dal Daily Telegraph nei prossimi cinque anni gli Stati del Golfo genereranno un surplus di bilancia commerciale grazie al petrolio di 500 miliardi di dollari. In perfetta linea con il reddito netto di 433 miliardi di dollari dei Paesi produttori del Golfo negli ultimi tre anni, il doppio dei tre anni precedenti, secondo i dati della Banca mondiale. Massima parte di questo reddito prende la via di Londra e in minor misura delle altre capitali. È nota la polemica sull’offerta del Dubai per i porti americani, ma ora il Dubai sta cercando di acquisire P&O, una sigla che racchiude l’intera storia marittima britannica, dai porti alle grandi linee di navigazione. Di tutti i giorni sono le acquisizioni in Gran Bretagna: solo la settimana scorsa Istithmar, del Dubai, produce un miliardo di dollari cash per il 2,7 per cento di Standard Chartered. Qatar Investment Authority ha partecipazioni in Ferrari e in DaimlerChrysler. Sono solo punte dell’iceberg che, sotto il pelo dell’acqua, è davvero immenso.
c. b.