Salgo in aereo. È sabato mattina. Poco prima sono passato dalla lounge di Alitalia, prendo al volo qualche quotidiano da leggere. Mi accomodo al 5C, poi attendo il decollo. Tra i tanti scelgo “Il Foglio” e la mia attenzione è catturata da un titolo che campeggia a tutta pagina III. “I Venti della Patrimoniale”. L’articolo che riportiamo in versione integrale (clicca per leggere l’articolo in pdf) è firmato da Stefano Cingolani. Tratta di un argomento che definire spinoso è un eufemismo.
Ormai è dallo scorso ottobre che se ne parla. Dal “braccio di ferro” tra Italia ed Europa circa i conti dell’ultima Legge di Stabilità. Ma ora che si avvicinano le elezioni, ora che l’Europa è appena tornata ad ammonire il nostro Paese proprio in vista della prossima finanziaria, ecco che “I Venti” della Patrimoniale tornano a spirare forti, quasi si trattasse di una bufera.
L’articolo di Stefano Cingolani è estremamente dettagliato, analitico e moderato nei toni. Tra l’altro racconta che “…E’ il più grande segreto dei segreti di Pulcinella: la patrimoniale la chiede il Fondo monetario internazionale (leggi il report di febbraio), la raccomanda l’Ocse, piace alla Bundesbank, la vorrebbe Maurizio Landini, segretario della Cgil, la sollecita da tempo Carlo De Benedetti, la predica Thomas Piketty”.
Ma c’è una parte che mi ha colpito particolarmente ed è quella relativa alle cosiddette “Condizioni di Einaudi”. Riporto fedelmente dall’articolo:
“Luigi Einaudi in un saggio del 1946 aprì la porta ad una patrimoniale, ma a tre condizioni: che fosse un’imposta straordinaria, che mettesse la parola – FINE – all’era lunga dell’incremento continuo ed esasperante delle imposte ordinarie sul reddito, che segnasse l’inizio di una fase di forte credibilità di una nuova classe politica. Nulla a che vedere con un aumento delle imposte sui capitali che Einaudi considerava negativo: prima verrebbero colpiti i redditi, poi la quota di reddito risparmiata che è essenziale per la crescita del Paese”.
Ci sarebbe qualcos’altro da aggiungere a mio avviso. Mi rifaccio ad un altro articolo, non di stampa, ma della Costituzione Italiana. Il 47 per la precisione, che cita proprio come dovrebbe essere lo stato a proteggere il risparmio.
Articolo 47
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.
Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.
Lo si sta facendo? Qualcuno tiene conto di quest’articolo della costituzione italiana? Non mi sembra ci sia scritto da nessuna parte che i risparmi privati possano essere utilizzati come fondo cassa per le scelte di uno Stato che per decenni è stato capace di spendere senza creare valore. Il risparmio dovrebbe essere valorizzato, indirizzato in parte verso le stesse imprese del Paese. L’ultima frase dell’articolo è un vero inno nazionale, un Inno di Mameli in formato finanziario: “…favorisce l’accesso del risparmio…al diretto ed indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”.
Credo di poter serenamente affermare che questa frase dell’articolo 47 della Costituzione sia stata tra quelle più disattese. E’ per questo che gli investimenti azionari in questo Paese non sono mai decollati. Non è un caso che ci sia tanta liquidità in conto corrente, non è un caso che ci sia così poca attenzione verso i fondi pensione. La cultura di questo Paese è stata costruita attorno al concetto di Tasso Fisso. Così, una volta azzerati gli interessi sui titoli di Stato tutto è rimasto fermo al palo. Anche le imprese hanno subito la stessa sorte. Pochi investimenti finanziari, poca cultura finanziaria da parte di chi le ha dirette (comunque e nonostante tutto splendidamente). È per questo che sono pochissime le aziende italiane ad essere quotate in borsa, soprattutto in rapporto ad altri Paesi.
Ma non solo. Le aziende italiane sono legate a filo doppio al finanziamento bancario. Il banco-centrismo è una caratteristica tutta peninsulare che ha mostrato i propri limiti proprio nel corso degli ultimi anni: la crisi delle imprese ha creato problemi alle banche, la crisi delle banche ha creato problemi alle imprese. I PIR, ora fermi al palo, avevano rappresentato un veicolo straordinario per andare nella direzione giusta. Avrebbero educato i risparmiatori ad allungare gli investimenti a diversificarli e ad orientarli in parte verso le imprese che funzionano di questo nostro straordinario Paese, avrebbero fatto crescere il mercato delle quotazioni, avrebbero reso migliore il Paese creando un circolo virtuoso nei processi economici interni.
Avrebbero…
Invece, a parlare di patrimoniale, di banche che falliscono, di debito pubblico galoppante e ormai superiore ai 2350 miliardi, di tassi sotto zero… il clima di sfiducia, che ha già raggiunto livelli molto elevati, finisce per auto-alimentarsi. I 1500 miliardi fermi in conto corrente (vedi gli ultimi dati della Banca d’Italia e Istat) ne sono la più chiara testimonianza. Senza orientamento, immersi nella nebbia, i risparmiatori non sanno cosa fare, quale strada scegliere.
Non vorremmo mai che questa somma diventasse davvero il “Fondo Cassa” da cui il governo decidesse di “ATTINGERE” per far fronte al momento di forte instabilità economica.
In tal senso suona straordinariamente profetica la dichiarazione di MOODY’S dello scorso autunno che diceva:
“Le famiglie italiane hanno un alto livello di ricchezza che rappresenta un importante cuscinetto contro gli shock futuri e potrebbe rappresentare anche una fonte potenziale di finanziamento per il governo”.
leopoldo.gasbarro@triboo.it