ROMA (WSI) – Le elezioni italiane, con il loro seguito di incertezza e dibatitto inconcludente sulla formazione del nuovo Governo (e sulla nomina delle nuove alte cariche istituzionali) sta avendo un impatto sull’economia italiana? I più sbrigativi, guardando lo spread (quello che i TG ci citano sempre: fra BTP e Bund), rispondono che -in fondo- no, non c’è stato un impatto.
Ma se osserviamo meglio scopriamo come l’euforia da cui i mercati erano pervasi in gennaio si è inevitabilmente consumata (gli indicatori di propensione al rischio degli operatori sono tornati su valori più normali), ma non con una corsa al bund, al cash e ai titoli brevi come in questi ultimi anni ci eravamo abituati, bensì verso azioni a volatilità ridotta (tecnicamente a basso beta).
Questo a testimonianza da una parte di un clima costruttivo di fondo, dall’altro che la consapevolezza della continua, e abbondante, iniezione di liquidità che arriva dalle banche centrali, finisce per spingere verso l’alto le quotazioni, rendendo poco interessante prendere posizione su titoli a basso o bassissimo ritorno.
Infatti, oltre all’equity a basso beta, i mercati hanno preferito decisamente comprare titoli di Stato emessi da Paesi periferici piuttosto che i solidi, e infruttiferi, bund. Con il risultato che gli spread di Spagna e Portogallo, ad esempio, hanno preso a stringersi vigorosamente, e parliamo di Paesi dove la disoccupazione gira a tassi da vertigine (Spagna) o il PIL scende anche più che in Italia e si discute della possibilità che forse torni a finanziarsi in modo normale sul mercato (Portogallo).
In altre parole, mentre spinti dall’abbondanza di liquidità gli operatori comprano un po’ di tutto, scopriamo che quel “tutto” significa “tutto ciò che non è Italia”. E così lo spread fra Italia e Spagna che viaggiava a 100 punti ad inizio anno, ha toccato oggi i 6 (sei) punti, permettendo a chi avesse sostituito i BTP con titoli spagnoli di realizzare una interessante performance. Chi mai l’avrebbe detto (magari addirittura a dicembre)?
Un altro esempio di come i mercati finanziari siano dominati dalla liquidità e dalle spinte monetarie viene dal Giappone (che oggi ricordava i due anni dallo tsunami che colpì Fukushima e le sue centrali) : alla fine dello scorso novembre, con la politica alle corde e l’economia in recessione, sembrava che l’arcipelago dei Samurai fosse in un vicolo cieco, con il Nikkei poco lontano dai minimi del marzo 2009.
Oggi la recessione è alle spalle (PIL +0,2%) ed il Nikkei da allora è cresciuto di oltre il 40%. Secondo gli osservatori tutto si riassume in una locuzione: effetto yen. A colpi di interventi monetari iper aggressivi dettati da ingerenza politica del governo sulla BoJ (al punto di spingere il governatore della Banca Centrale a dare le dimissioni) le quotazioni dello yen contro dollaro ed euro hanno subito un forte calo, dando spinta alle esportazioni (e provocando l’ira della Corea, dove Samsung lamenta la concorrenza sleale sulle piazze internazionali dei suoi peers nipponici) e ai consumi interni: depauperare la moneta incentiva ad utilizzarla, anziché risparmiarla.
Ora ci sarà da vedere se la ripartenza di consumi ed esportazioni genererà, come sarebbe normale attendersi, inflazione. E se così fosse i tassi dovranno alzarsi, generando un forte aumento di spesa pubblica per gli interessi sull’enorme debito pubblico (oltre il 220% del PIL), l’alternativa sarebbe quella di disporre per legge (per patriottismo) una sorta di sottoscrizione forzosa del debito pubblico a tassi quasi zero da parte della cittadinanza, ma queste sono gatte che dovrà pelarsi Abe.
Ancora sulle questioni monetarie vediamo grande attenzione negli USA dove i grandi gestori di fondi si preparano a un rialzo dei tassi che non è un se, ma un quando.
Lo fanno comprando titoli a tasso variabile, titoli indicizzati o accorciando le duration dei titoli che detengono nei portafogli. La lunga fase di tassi bassi (e la spinta a ribasso sui tassi derivante dal prolungato QE della Federal Reserve) porta con sé il rischio di quanto accaduto nel 1994, quando il rialzo dei tassi di interesse innescò un’ondata di vendite che fece calare i prezzi dei titoli di stato trentennali a stelle e strisce di quasi il 24% in un anno.
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