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Mercati emergenti, vendite esagerate? Comprare in saldo

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MILANO (WSI) – In quale paese è stato finalmente lanciato il primo smartwatch (l’orologio con le mail e l’accesso alla rete)? In Corea del Sud. Quale paese ha il più alto tasso di penetrazione robotica nella sua industria manifatturiera? La Corea del Sud. E perché, di grazia, l’indice Msci, sul quale sono costruiti e pesati innumerevoli portafogli, continua a classificare la Corea del Sud come un paese emergente e non, invece, come pienamente sviluppato (un po’ più del Portogallo, tanto per dire)?

A dire il vero qualche dubbio è cominciato a venire anche a Msci, che ha messo sotto verifica la Corea e ci farà sapere nel giugno 2014 se Seoul verrà promossa a paese sviluppato. Ancora molti mesi di studio approfondito, dunque, per capire l’assolutamente ovvio. La storia pesa come un macigno. Per cinque secoli il Portogallo è stato una potenza coloniale, mentre la Corea è stata una semicolonia della Cina o del Giappone. Il colonialismo è finito da mezzo secolo e tutti lo sanno, ma interiorizzare il concetto è così difficile che le agenzie di rating ci hanno messo 15 anni (e non hanno ancora finito) per correggere l’enorme distorsione per cui un qualsiasi paese europeo con un debito Pil del 100 per cento era comunque una tripla A (per superiorità antropologica?) mentre un paese emergente con un debito Pil del 30 era comunque una B scarsa.

Chi l’ha capito prima e ha comprato bond dei sanculotti emergenti e venduto i bond dell’aristocrazia squattrinata ha guadagnato. Chi ha aspettato il via libera delle agenzie di rating non ha guadagnato quasi nulla.

Si pensi alla Polonia, paese solido, ben gestito, politicamente stabile. E, soprattutto, dotato della virtù più preziosa per sopravvivere e prosperare in questi tempi difficili, la flessibilità. A cavallo tra gli anni Novanta e Duemila mezzo milione di polacchi, senza fare drammi, è emigrato in Inghilterra. Negli ultimi anni il continuo sviluppo dell’economia polacca li ha richiamati quasi tutti a casa.

Oggi la Polonia è una delle mete più ambite della nuova emigrazione italiana. Un ottimo sito, Qui Polonia e Italia, dà conto di questa nuova pagina di storia con freschezza e colore e alterna lezioni di polacco, consigli agli italiani in partenza e lunghi elenchi di pizzerie Mafioso (un’intera catena a Lubuskie) e Cosa Nostra (Cracovia, Poznan). La Polonia non è la Slovacchia. Non è, cioè, la fabbrica della grande auto tedesca che viene poi venduta in tutto il mondo.

È un’economia diversificata e ormai sofisticata ed è dotata di una classe imprenditoriale propria. La Slovacchia è la Malesia d’Europa, la Polonia è la Corea. Con ancora meno tasse.

Dove è classificata oggi la Polonia? Naturalmente tra i paesi emergenti. Il visionario George Friedman di Stratfor sostiene che un giorno di questo secolo l’economia polacca supererà quella tedesca, ma occorrerà ancora tempo prima che le agenzie e i compilatori di indici ne prendano atto.

Qualcosa si muove comunque anche qui e il rating della Polonia è oggi, meritatamente, più alto di quello dell’Italia. In un mondo ossessionato dalle regolamentazioni, dalla tracciabilità e dal controllo, i gestori sono costretti a ragionare sempre più per classi di asset e a pensare dall’alto in basso e non dal basso in alto.

Per un bond o un titolo azionario, trovarsi classificato in una lista o in un’altra significa essere avviato automaticamente al patibolo o alla gloria, a prescindere dai meriti effettivi. Se Polonia e Corea, per fare un esempio, sono nella lista di proscrizione degli emergenti, le migliaia di comitati d’investimento che da tre mesi hanno deciso di liquidare le loro posizioni nel settore venderanno anche loro. Peccato.

In un mondo così, ci sono solo due modi per guadagnare qualcosa. O si è velocissimi e si riesce a precedere gli altri nell’abbracciare la nuova tendenza, oppure si agisce con la massima calma, si aspetta che tutti escano di corsa dal teatro che va a fuoco (o, più spesso, dal teatro in cui qualcuno ha gridato al fuoco) e si vanno a scegliere le cose migliori tra quelle abbandonate.

La corsa alla liquidazione degli emergenti non è, naturalmente, completamente insensata. Quella che è insensata è la mancanza di selettività, favorita dalla strumentazione che l’industria finanziaria si è data in questi anni, fatta di Etf e di fondi di settore che a loro volta riflettono più o meno bene un paniere, ovvero la lista compilata una volta per sempre da qualche agenzia esterna.

In questo cesto, sia chiaro, alcuni frutti si stanno effettivamente deteriorando, ma non in quanto emergenti bensì, semplicemente, perché hanno seguito in questi anni politiche sbagliate. Pelle bianca o pelle nera, sviluppati o emergenti, chi fa politiche sbagliate va venduto, ma chi le fa giuste va comprato. I paesi emergenti da evitare sono quelli che hanno seguito con troppo entusiasmo le politiche sbagliate che molti paesi sviluppati hanno seguito fino a prima della crisi, ovvero il comprare crescita a credito senza darsi un limite.

Crescere troppo velocemente a credito (e non conta molto che il debito sia privato o pubblico) si traduce dopo qualche anno in una crisi bancaria se il credito è stato erogato dall’interno (come in Cina) o in una crisi di bilancia dei pagamenti se il credito è arrivato da fuori (Turchia, Brasile, India, Indonesia). I paesi del primo tipo hanno il privilegio di potere scegliere il momento in cui proclamare la crisi, gli altri sono alla mercé degli investitori internazionali, a loro volta teleguidati dalla politica monetaria della Fed.

Chi ha investito direttamente in paesi emergenti (e non) con un disavanzo significativo delle partite correnti o ha prodotti finanziari che contengono in prevalenza di questi paesi farà bene a non mettere altri soldi, ma non è detto che vada per forza incontro ad anni di perdite. Tutto dipenderà dalle politiche che questi paesi seguiranno da qui in avanti. I paesi che dovessero scegliere di difendere il cambio spendendo le loro riserve valutarie saranno i più pericolosi. Quelli che lasceranno scivolare il cambio fino alla sottovalutazione provocheranno una perdita iniziale agli investitori stranieri, ma costruiranno le condizioni per un rialzo azionario (accompagnato da un recupero del cambio) in un secondo tempo. Quasi per definizione, i paesi con ampi disavanzi correnti sono quelli in cui i capitali esteri sono arrivati massicciamente negli anni scorsi e stanno andandosene adesso. I paesi che sono invece restati in equilibrio o sono addirittura in surplus non meritano assolutamente di essere accomunati agli altri nelle vendite, a meno che non abbiano problemi specifici di altra natura.

La Corea, ad esempio, è in surplus, ma subisce da qualche mese la debolezza dello yen giapponese, che fa concorrenza ai prodotti coreani, e ha ancora da finire di smaltire una bolla immobiliare. La borsa di Seoul quota però solo 8 volte gli utili 2014 ed è quindi legittimo affermare che sconti già ampiamente tutti i problemi.

Le Filippine, dal canto loro, non hanno nessun serio problema strutturale e hanno solo da smaltire un rialzo di borsa che a un certo punto è diventato troppo esuberante. Nel 2006 la borsa di Manila capitalizzava l’8 per cento di quella di Milano, oggi il 55 per cento.

Nel 2010 Il Rosso e il Nero uscì con un titolo provocatorio (Copernicus. Badanti italiane a Manila nel 2050? http://www.kairospartners.com/sites/default/files/Copernicus%20RN%2011.03.10.pdf). Lo dovessimo scrivere oggi, anticiperemmo al 2040 il momento in cui l’aumento del loro potere d’acquisto e la diminuzione del nostro potrebbero provocare un’inversione di segno dei flussi migratori tra i due paesi. Le Filippine hanno infatti prospettive secolari molto buone, ma nel breve termine la sopravvalutazione della loro borsa e la sottovalutazione della nostra porteranno a un paio d’anni di outperformance di Milano rispetto a Manila.

Come ogni tanto ricordiamo, l’Africa subsahariana, con l’eccezione del Sud Africa, ha continuato in questi anni a crescere senza l’aiuto rischioso dei flussi finanziari esteri, che un giorno ci sono e fanno tutti felici e il giorno dopo se ne vanno sul più bello. Questi paesi, che hanno i conti in ordine e continuano a crescere, rimarranno quindi completamente al riparo dalla crisi del settore emergente e offriranno ottime opportunità ai relativamente pochi che vi si avventureranno.

Venendo al quadro generale e alle prospettive di breve, i problemi sul tavolo sono sempre quelli (crisi politica italiana, Siria, tapering, conflitto fiscale in America). L’ampio preavviso permette un riposizionamento dei portafogli e una conseguente riduzione del carico di ansia.

Dire che il prodursi effettivo di questi eventi verrà accolto con uno sbadiglio è sciocco ed esagerato, ma le settimane trascorse a discuterne eviteranno quanto meno di arrivare impreparati. Detto questo, non va dimenticato che i mercati correggono talvolta anche senza nessun motivo se il rialzo dura da molto tempo e se la stagione è quella giusta (e l’autunno è crashy, come dice Michael Hartnett). Per il momento manteniamo un peso neutrale sull’azionario, pronti a comprare in caso di vuoti d’aria.

*Questo documento e’ stato preparato da Alessandro Fugnoli, strategist Kairos Partners SGR. ed e’ rivolto esclusivamente ad investitori istituzionali ovvero ad operatori qualificati, così come definiti nell’art. 31 del Regolamento Consob n° 11522 del 1° luglio 1998 e successive modifiche ed integrazioni. Le analisi qui pubblicate non implicano responsabilita’ alcuna per Wall Street Italia, che notoriamente non svolge alcuna attivita’ di trading e pubblica tali indicazioni a puro scopo informativo. Si prega di leggere, a questo proposito, il disclaimer ufficiale di WSI.

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