Economia

MES, fumata nera della Camera sulla ratifica: cosa cambia per le banche italiane

L’Aula della Camera ha respinto il trattato sul MES. I voti a favore sono stati 72, 184 i contrari, 44 gli astenuti, bocciando il primo articolo del testo. Hanno votato a favore della ratifica i deputati del Pd, Iv e Azione. Contro hanno votato FdI, Lega e M5S. Ad astenersi sono stati i deputati di FI, Avs e Noi Moderati. Il centrodestra si è dunque spaccato.
L’Italia diventa così l’unica in Europa a far saltare il banco di una riforma che è stata già da tempo ratificata da tutti gli altri Stati membri.

Ricordiamo che il MES, acronimo di Meccanismo Europeo di Stabilità, è un fondo permanente di salvataggio costituito nel 2012 per fornire prestiti ai Paesi dell’area euro che dovessero trovarsi in condizioni di difficoltà finanziarie, con conseguenti difficoltà ad aver accesso ai mercati. Istituito mediante un trattato intergovernativo nel 2012, raccoglie l’eredità del Fondo salva Stati utilizzato nel pieno della crisi dei debiti sovrani a favore di Grecia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Cipro, con singoli programmi avviati tra il 2010 e il 2013 e terminati tra il 2013 e il 2018. Non è un’istituzione dell’UE ma un’organizzazione intergovernativa, che conta 20 Stati membri (tutti i Paesi dell’Eurozona) e ha sede a Lussemburgo. Per finanziare i suoi prestiti, il MES si finanzia a sua volta sui mercati. Ciò avviene mediante l’emissione di obbligazioni con scadenze fino a 43 anni, cambiali (attualmente con scadenze di 3 e 6 mesi) e altri strumenti. Grazie alla sua elevata solvibilità, il MES è in grado di prendere in prestito denaro dai mercati a tassi di interesse molto più bassi rispetto a quelli praticati ai paesi in difficoltà finanziarie. Principali acquirenti dei titoli emessi dal MES sono le banche commerciali, le banche centrali, i gestori patrimoniali, le compagnie assicurative, i fondi pensione e i fondi sovrani.

Tra le altre cose, la riforma del Trattato istitutivo del MES mirava a introdurre un sostegno diretto al Fondo di risoluzione unico (SRF) per supportare la risoluzione delle banche, una sorta di paracadute che contribuirebbe a prevenire e contenere i rischi di contagio connessi con eventuali crisi bancarie. Il SRF interviene infatti dopo la svalutazione da parte della banca in crisi dell’8% del passivo: è il meccanismo del bail-in che comporta perdite per azionisti e creditori e ha l’obiettivo di ricapitalizzare l’istituto in crisi. Ma in certi casi, come in quello di Credit Suisse, può non bastare, e la riforma del MES mirava anche ad utilizzarlo in casi come quello della banca svizzera nel caso in cui l’SRF si fosse esaurito (circa 70 miliardi alimentati con il denaro delle banche).

Senza il MES dunque le banche europee, incluse quelle italiane, avranno una protezione in meno nelle crisi. In una situazione di emergenza, tale da causare una fuga di depositi, non ci sarà uno strumento di ultima istanza per salvaguardare la stabilità finanziaria, che peraltro non avrebbe richiesto denaro da parte dei contribuenti.

Se il mercato non viene rassicurato in modo molto veloce e deciso (come hanno fatto anche gli USA per la crisi delle banche regionali come SVB), allora i timori possono trasferirsi anche a istituti sani, come quelli italiani. Tra l’altro proprio la solidità delle banche italiane sembra essere tra i motivi che hanno portato i parlamentari meloniani a respingere la ratifica. Ma la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità avrebbe aiutato tutti i Paesi, anche quelli con banche solide. Anzi, avrebbe facilitato soprattutto i Paesi con i conti pubblici più deboli come l’Italia, perché quelli meno indebitati, come per esempio la Germania, potranno comunque intervenire con fondi nazionali per gli istituti domestici. Tra l’altro l’uso del MES come backstop nelle crisi inoltre sarebbe stato neutrale per le finanze pubbliche: le risorse utilizzate devono essere restituite dalla banca dopo l’emergenza oppure dal Single Resolution Fund, quindi da tutti gli istituti di credito europei.

In un’audizione sul MES alla Camera Ignazio Visco, allora governatore della Banca d’Italia, aveva osservato che la riforma “riduce il rischio che la gestione della crisi di un grande intermediario avvenga in maniera disordinata, con potenziali impatti sulla stabilità finanziaria complessiva”.