La storia che lega lo Stato a Monte dei Paschi di Siena sembra inserirsi nel più ampio filone dei salvataggi pubblici elargiti a società affossate da corruttela ed insipienza. Ma quando, nel 2017, l’intervento diretto del ministero dell’Economia su Mps è arrivato, mancavano intorno reali alternative.
La banca senese, infatti, non solo impiega oltre 21mila dipendenti ed è la quarta più grande d’Italia, ma è anche uno degli istituti che Bankitalia reputa di “importanza sistemica”. E’ “troppo grande per fallire”, come si diceva negli anni d’oro dei salvataggi bancari.
Le radici della crisi di Mps risalgono almeno all’acquisizione di banca Antonveneta, annunciata nel novembre 2007 per 9 miliardi di euro; un’operazione il cui esito si sarebbe rivelato disastroso per il bilancio della banca. Dal 2008 a oggi, Mps è andata incontro a cinque aumenti di capitale, per un totale di 23,472 miliardi di euro.
Solo una parte di questa cifra è stata “investita” con denaro pubblico, come vedremo nel dettaglio. Il conto, comunque, è destinato a lievitare nel prossimo futuro: oggi lo Stato possiede il 64% delle quote di Mps e dovrà dismetterle entro quest’anno o, più probabilmente, entro una nuova scadenza che deve essere ancora indicata dalla Commissione europea.
Per riuscire a trovare un partner, Mps dovrà affrontare una nuova ricapitalizzazione e una serie di altri interventi il cui costo complessivo potrebbe superare i 5 miliardi di euro.
Il costo di Mps sui contribuenti, finora
Nelle vicende di Mps, lo Stato inizia mettere mano al portafoglio sotto forma di prestiti obbligazionari, i Tremonti Bond e i Monti Bond (questi ultimi risalenti al 2012), con un impegno di quasi 4 miliardi di euro. Il secondo dei due prestiti si rende necessario per garantire l’allineamento di Mps alle raccomandazioni dell’Autorità bancaria europea (Eba), che aveva individuato un rischio per la stabilità della banca legato alla sovrabbondanza di titoli di Stato italiani che aveva in portafoglio.
La crisi degli spread che pochi mesi prima aveva messo in dubbio la tenuta del Paese, del resto, era ancora di stretta attualità. Alla messa in sicurezza della banca partecipa, dunque, un prestito effettuato con denaro pubblico.
Nel corso dei due anni successivi, anche grazie ad un aumento di capitale da 5 miliardi di euro cui lo Stato non ha partecipato (nel 2014), la banca riesce a restituire tutto il capitale ricevuto dal Tesoro. Ma è proprio in relazione ai Monti Bond che lo Stato entra nel capitale di Mps, nel luglio 2015. La banca, infatti, ha corrisposto in azioni una parte degli interessi dovuti per il prestito ricevuto dal Tesoro. Le azioni emesse tramite un aumento di capitale da 230 milioni di euro che assegna al ministero dell’Economia una quota pari al 4% del capitale sociale. Prima dell’entrata del Mef, il 25 maggio 2015, Mps aveva compiuto un altro aumento di capitale – il quarto dal 2008 – da 2,993 miliardi.
Le note dolenti per Via XX Settembre iniziano a farsi sentire alla fine del luglio 2016, quando l’Eba, nuovamente, individua forti vulnerabilità nel bilancio di Mps. Nello scenario avverso dello stress test condotto dall’Autorità bancaria, Mps avrebbe avuto, alla fine del 2018, un capitale Cet1 negativo del -2,4%. In parole più semplici, sarebbe potuta fallire nel caso si fosse verificato un grave shock economico, il quale avrebbe provocato perdite insostenibili per la banca.
A quel punto, spiega Bankitalia in un approfondimento sulla ricapitalizzazione condotta nel 2017, lo Stato ha dovuto partecipare all’aumento di capitale “data l’impossibilità per Mps di conseguire per altra via il necessario rafforzamento patrimoniale”. Ancor più netta l’affermazione successiva: “In assenza di un intervento pubblico precauzionale, rilevanti sarebbero stati i riflessi negativi sulla banca e pesanti le ripercussioni sulla stabilità finanziaria e sull’economia italiana”.
E’ a questo punto della storia che la partecipazione dello Stato in Mps si fa davvero consistente, esponendosi alle ingenti perdite che il titolo della banca ha successivamente scontato in Borsa. In seguito alla “ricapitalizzazione precauzionale” da 8,327 miliardi, cui lo Stato ha partecipato per 5,4 miliardi, la quota del Mef sul capitale di Monte Paschi passa dal 4 al 68%. Per accaparrarsi le azioni di nuova emissione (per 3,9 miliardi), nonché per ristorare gli obbligazionisti coinvolti nel burden sharing (per 1,5 miliardi) lo Stato ha pagato 6,49 euro per azione. Al prezzo di chiusura del 28 ottobre (1,03 euro), la minusvalenza su questo “investimento” da parte del Mef, ammonterebbe 4,54 miliardi di euro.
Al momento, la quota pubblica in Mps è diminuita al 64%, ma la sostanza rimane da diverso tempo la medesima: l’Unione europea chiede che lo Stato venda la sua partecipazione, riprivatizzando la banca – e, dunque, materializzando la perdita sulle azioni che ha acquisito.
E’ una questione di “come” e “quando”, non di “se”. Per tutto il 2021 Unicredit è stata considerata l’unica possibilità per una cessione di Mps, perlomeno nella sua interezza. Secondo quanto ricostruiscono il Sole 24 Ore e Reuters, Via XX Settembre sarebbe stata disposta a sostenere oneri fino a 5 miliardi di euro, di cui 3 miliardi di ricapitalizzazione e 2 miliardi fra sterilizzazione dei rischi legali (collegati ai processi in corso) e svalutazioni sui crediti a rischio. Unicredit avrebbe chiesto interventi che avrebbero comportato un esborso da oltre 8 miliardi di euro, facendo saltare la trattativa.
Da Antonveneta a oggi, cronologia degli aumenti di capitale di Mps
- Aumento di capitale del 2008: 5 miliardi di euro
- Aumento di capitale del 2011: 2,152 miliardi di euro
- Aumento di capitale del 2014: 5 miliardi di euro
- Aumento di capitale del 2015: 2,993 miliardi di euro
- Ricapitalizzazione precauzionale 2017: 8,327 miliardi di euro, di cui 5,4 miliardi sottoscritti dallo Stato
- Totale: 23,472 miliardi di euro