Una campagna pubblicitaria con l’ex giocatore di football americano Colin Kaepernick come testimonial è costata a Nike più di 4 miliardi di dollari di capitalizzazione in Borsa sinora (vedi grafico con l’andamento del titolo a Wall Street).
Anche chi non se ne intende di football americano e che al massimo ha visto qualche volta il Superbowl, la finalissima a conclusione della stagione della National Football League (NFL) che ogni anno risulta l’evento sportivo più ricco al mondo, sa di chi stiamo parlando. Il lanciatore dello sport più popolare in America non ha più un datore di lavoro per via del suo comportamento fuori dal campo.
Il quarterback ex San Francisco 49ers è senza un contratto da più di due anni, ovvero da quando è diventato free agent. Il motivo? Non certo le sue qualità di gioco, bensì non meglio specificati problemi di “carattere”. Nel 2016 Kaepernick è stato tra i primi atleti Usa a protestare in campo contro le violenze, giudicate da alcuni eccessive, della polizia nei confronti della comunità afroamericana.
Inginocchiandosi durante l’inno nazionale e mostrandosi dunque irrispettoso nei confronti della bandiera americana – un simbolo sacro in America, paese molto patriottico – si è attirato le ire tra gli altri del Presidente Donald Trump e dei dirigenti di alcune delle franchigie più blasonate della NFL. Ma come riferisce ESPN, Nike ha mantenuto ciononostante il contratto con Kaepernick, firmato nel 2011.
Nike si è scelta un testimonial molto scomodo
Ora che Kapernick è diventato il viso della campagna di Nike, dal punto di vista economico e di immagine la campagna pubblicitaria si sta rivelando per ora un boomerang per la multinazionale di abbigliamento sportivo. Il titolo Nike, quotato sul Nasdaq, perde il 2,9% circa a 798,81 dollari al momento.
Anche se gli Stati Uniti restano il mercato più importante per Nike, la compagnia è un brand che opera su scala mondiale, dunque è probabile che la maggior parte della clientela non abbia un’opinione precisa sul caso Kaepernick. Gli Usa contano per meno della metà dei ricavi complessivi del gruppo dell’Oregon.
Detto questo, in Borsa il verdetto è senza appello, con i titoli che hanno perso 4 miliardi di capitalizzazione dal momento del lancio della campagna. A livello mediatico, secondo i calcoli di Bloomberg, la campagna ha portato a un’esposizione da $43 milioni nelle prime 19 ore. Metà delle reazioni sono state positive, l’altra metà un po’ meno.
Sui social media le reazioni sono decisamente polarizzanti. Si passa da chi ha bruciato le sue scarpe della Nike, a chi invece dice che “Nike è stata e continuerà a essere la scarpa preferita dalla mia famiglia” (@TheDionneMama). L’utente @jimispr, un ex soldato della Marina addirittura dice: “sono un veterano della Marina degli Stati Uniti. Ho rinunciato alla mia libertà, ho lasciato la mia famiglia e combattuto per questa nazione. Ho combattuto perché il signor Kapernick potesse protestare nel modo che preferisce. Non sta facendo del male a nessuno e non sta incitando alla violenza. Lasciatelo in pace”.
Ma non tutti i follower e i fan di Nike, brand storico che esiste dal 1971, hanno avuto una reazione altrettanto positiva. “È giunta l’ora di gettare tutte le mie schifose Nike”, annuncia @SportDuh 17. “Nike non vedrà mai più un dollaro che viene dalle mie tasche. Vediamo quanto a lungo riescono a sopravvivere ora”, è il commento critico di @TheyCallMeAzul.
Setting half their lawn on fire while burning Nike shoes pic.twitter.com/rDqGGARzj0
— Things White Folks Like (@Things4WhitePpl) 4 settembre 2018
Persino l’ex presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha pensato bene di esprimersi sulla vicenda, pubblicando un tweet che recita: “Questa settimana inizia la stagione NFL e sfortunatamente ancora una volta @Kaepernick7 non ha una squadra. Sebbene sia uno dei migliori quarterback del campionato”.
È la riprova di quanto la vicenda di Kaepernick sia diventata un caso “mondiale”. Prima d’oggi nessuno avrebbe scommesso un centesimo sul fatto che Ahmadinejad, uno dei nemici storici dichiarati del cosiddetto “imperialismo degli Stati Uniti”, si interessasse di sport americani.
Campagna “Just Do It” affronta tema controverso: violenze contro i neri
Prima di diventare il testimonial di Nike, Kaepernick, che insieme all’ex compagno di squadra, la safety Eric Reid (anche lui disoccupato), ha fatto causa alla lega dell’NFL per aver presumibilmente complottato contro di lui, è diventato l’uomo simbolo delle proteste dei professionisti di sport americani contro i casi di omicidi razziali e violenze eccessive dei poliziotti nelle periferie d’America ad alto tasso di criminalità.
Nike ha voluto sfruttare quella che è diventa ormai un’icona del coraggio di protestare contro le autorità in occasione dei 30 anni dalla sua prima campagna promozionale “Just do it“. Lo slogan che nel poster pubblicitario accompagna il primo piano di Kaepernick, 31 anni a novembre, è in effetti molto potente. Dice: “credere in qualcosa, anche se significa rinunciare a tutto“.
La società di abbigliamento sportivo ha così commentato la decisione: “pensiamo che Colin sia uno degli atleti più influenti della sua generazione, che ha saputo sfruttare il potere dello sport per aiutare a fare avanzare le cose nel mondo”.
Kaepernick, che nella stagione 2012-2013 ha disputato il Superbowl (che ha un giro d’affari di centinaia di milioni di dollari), nonostante il suo talento è ritenuto dai dirigenti delle 32 squadre della NFL un giocatore “scomodo” o quanto meno controverso da quando ha deciso di inginocchiarsi durante l’inno americano, che viene cantato da tutto lo stadio prima delle partite.
Il gesto era in segno di protesta contro le violenze e la discriminazione delle forze dell’ordine contro i neri in America. C’è anche da dire che dopo il polverone di polemiche sollevato dal caso, molte squadre preferiscono probabilmente non attirare l’attenzione dei media sui propri giocatori e sulla propria dirigenza, per non creare distrazioni inutili.
In seguito ai ripetuti casi di protesta, Trump aveva detto che se fosse un presidente di un club di football americano licenzierebbe in tronco i giocatori che si comportano in quel modo denigrando la patria. Come risultato, nella giornata successiva, la Casa Bianca non ha ottenuto altro che una moltiplicazione del numero di proteste negli stadi di football. Molti più giocatori, anche in segno di solidarietà, si soni inginocchiati di fianco ai compagni di squadra.
Per risolvere la contesa, quest’anno l’NFL e il suo presidente Roger Goodell hanno stabilito che le squadre che hanno in roster giocatori che si inginocchiano in campo durante l’esecuzione dell’inno degli Stati Uniti saranno multate.
Ogni singolo giocatore sarà tuttavia libero di protestare in un altro modo. Ad esempio da giovedì 6 settembre, data d’inizio della stagione regolare, è possibile evitare di presenziare all’esecuzione dell’inno, a patto che non si stia in campo. È una questione di “rispetto nei confronti della bandiera e dell’inno nazionale”, spiega la NFL.
Violenze contro i neri in Usa: le statistiche
Più che il numero di violenze e dei casi di uccisioni di afroamericani, a scatenare le proteste è stato il fatto che i poliziotti che compiono i crimini non vengono processati nel 99% dei casi, anche se la persona ammazzata risulta poi innocente o disarmata (è stato così nel 30% dei casi nel 2015, secondo i dati elaborati dal sito statunitense Mapping Violence). Probabilmente anche stressati da condizioni di lavoro non ottimali, i poliziotti da parte loro si difendono dicendo di rispettare le temere per la propria incolumità fisica.
Rimane il problema del presunto comportamento discriminatorio: statisticamente i neri hanno tre volte più probabilità di rimanere uccisi rispetto ai bianchi. Analizzando i dati dei rapporti ufficiali dell’FBI riportati da VOX si scopre che nel 2012 gli afroamericani costituivano il 31% delle vittime, anche se rappresentavano all’epoca soltanto il 13% della popolazione Usa.
La disparità è ancora più ampia se si guardano le statistiche sui sospetti disarmati: secondo un’analisi effettuato dal Il Guardian, le minorità razziali sono pari al 37,4% della popolazione generale e il 46,6% vittime, ma ben il 62,7% delle vittime che sono state uccise dalla polizia anche se erano disarmati.