*Alfonso Tuor e’ il direttore del Corriere del Ticino, il piu’ importante quotidiano svizzero in lingua italiana. Il contenuto di questo articolo esprime esclusivamente il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Il caro-petrolio comincia a preoccupare le autorità politiche e monetarie. La Banca centrale europea ha sottolineato nel suo ultimo bollettino mensile che l’impennata del prezzo del greggio costituisce una minaccia per la ripresa dell’economia europea; l’Agenzia internazionale per l’energia (AIE) sostiene che il caro-petrolio taglia la crescita dell’economia mondiale di 0,8 punti; il Kof del Politecnico di Zurigo stima che un aumento del prezzo del petrolio del 10%, che si protrae per due anni, costa all’economia elvetica 0,2 punti di crescita e si potrebbe continuare.
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Ebbene, il prezzo del greggio, che veleggia ora al di sopra dei 65 dollari il barile si aggirava attorno ai 45 dollari durante l’estate dell’anno scorso e attorno ai 30 dollari nell’estate del 2003. Quindi, il trend ascendente è di lungo periodo. Infatti il prezzo, che era caduto all’indomani della «crisi asiatica» al di sotto dei 10 dollari il barile, si è poi ripreso e soprattutto a partire dal 2003 ha cominciato a correre al rialzo. La domanda sulla bocca di tutti è se si tratta di un eccesso oppure di un fenomeno di lungo termine.
Fino a poche settimane orsono, i più ritenevano che l’aumento fosse esagerato dalle tensioni geopolitiche e dalla speculazione e che quindi prima poi sarebbe tornato a muoversi in una fascia tra i 30 e i 40 dollari il barile. Negli ultimi mesi si è però infoltita di molto la schiera di coloro che ritengono che il caro-petrolio sia un fenomeno di lungo periodo, con ulteriori aumenti all’orizzonte.
Tra questi vi è, ad esempio, il primo ministro francese Dominique de Villepin, il quale martedì scorso ha dichiarato che il petrolio rimarrà caro anche nei prossimi anni. E vi sono soprattutto i mercati, come sottolinea l’economista di UBS George Magnus. Infatti il prezzo del petrolio a un anno sul mercato dei derivati si è continuato ad aggirare dal 2000 fino al 2004 attorno ai 25 dollari, nonostante l’anno scorso il prezzo alla consegna avesse già raggiunto i 50 dollari.
Quest’anno la differenza tra il prezzo alla consegna e il prezzo tra un anno si è notevolmente ridotto. Ciò vuol dire, come sostiene Magnus, che i mercati ritengono che non si ridurrà di molto rispetto ai livelli attuali, ma anche che per il momento non credono in un’ulteriore forte e duratura ascesa. È impossibile sapere chi ha ragione sul lungo termine. È però possibile azzardare alcune ipotesi sul breve e medio termine.
Il rialzo del greggio è il frutto di una domanda che sta crescendo ad un ritmo nettamente superiore a quello degli anni Novanta. I motivi sono noti: la fame di energia di Cina ed India e di molti altri paesi emergenti e la forte crescita di un’economia «energivora» come quella statunitense. Rispetto a questo aumento della domanda non vi è stato un corrispondente aumento dell’offerta, per cui la capacità di estrazione dei paesi produttori è pressoché completamente utilizzata. Inoltre vi sono stati scarsissimi investimenti negli impianti di raffinazione. Ciò ha per effetto che i prezzi di riferimento delle migliori qualità di greggio, che sono il Brent e il West Texas, sono esplosi ancor più.
Le strozzature dell’offerta non possono certamente essere risolte in breve tempo. Quindi è probabile che il prezzo continui a salire sul medio termine (pur facendo anche ampie correzioni). L’inversione di tendenza potrebbe avvenire grazie ad un calo del consumo. La domanda potrà però diminuire solo se l’economia mondiale rallenterà fortemente. Finora ciò non è avvenuto: in altri termini, finora l’impennata del petrolio non ha prodotto significative conseguenze economiche. Questo fenomeno è sicuramente il frutto della maggiore efficienza energetica dei paesi industrializzati (rispetto agli anni Settanta consumiamo la metà di energia per produrre un’unità di Pil), per cui il rialzo del greggio ha pesato meno sulla crescita economica.
E’ anche dovuto al fatto che l’attuale situazione economica ha fatto sì che l’aumento del prezzo del petrolio agisse come una tassa che decurta il reddito disponibile delle famiglie, senza innescare una spirale al rialzo generale dei prezzi. L’entità e la rapidità del recente movimento al rialzo stanno però mettendo in forse queste certezze. Si cominciano cioé a manifestare tensioni inflazionistiche che moltiplicherebbero gli effetti economici negativi del caro-petrolio. In buona sostanza, si confermerebbe la regola secondo cui l’ascesa del prezzo del petrolio finisce con una recessione che produce poi il declino del suo prezzo.
Insomma, ci stiamo rapidamente avicinando alla «soglia del dolore». Basti pensare che oggi il prezzo del petrolio è ai massimi in termini nominali, ma che in termini reali non ha ancora raggiunto le vette del secondo choc petrolifero del 1979, che secondo i diversi calcoli corrisponderebbero ad un prezzo odierno tra i 90 e i 120 dollari il barile. Oggi questa soglia appare purtroppo non molto lontana.
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