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Non versa l’Iva per colpa della crisi: assolto

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ROMA (WSI) – Non poter versare l’Iva in caso di forza maggiore non costituisce reato. La crisi ha fatto fallire il suo unico cliente e un imprenditore di Catania non ha potuto pagare la tassa sui consumi per poter devolvere gli stipendi.

La Cassazione, ribaltando il verdetto di secondo grado, ha stabilito che una reale causa di forza maggiore come la crisi non comporta il dolo e di conseguenza il reato.

“La cooperativa della quale l’imputato è legale rappresentante – si legge sulle pagine del Messaggero in un articolo che porta la firma di Cristiana Mangani – aveva praticamente un unico committente, che era fallito proprio nella imminenza della data di scadenza del pagamento delle imposte”.

“Di conseguenza – è ancora la tesi degli ermellini – la cooperativa non aveva potuto fare altro che insinuarsi nel passivo del fallimento e, non disponendo di beni aveva destinato le poche risorse disponibili al pagamento degli stipendi dei dipendenti e delle relative contribuzioni previdenziali”.

I giudici hanno poi considerato come in questi casi si debba valutare tenendo conto delle peculiarità delle storie.

“L’evasione contestata non poteva ritenersi ascrivibile a dissennatezza gestionale, né ad alcun altro intento truffaldino od omissivo, bensì solo a causa di forza maggiore indipendente dalla volontà dell’imputato stesso”.

Salvatore S., rappresentate legale di un’impresa, era finito sotto accusa per non aver versato l’Iva. “Davanti ai giudici aveva ammesso la sua evasione, ma aveva anche sottolineato che non c’era stato dolo nel suo comportamento, in quanto non aveva pagato perché il suo unico cliente era fallito e non aveva potuto fare altro che inserirsi nel passivo”.

“L’Appello, però, non era stato clemente, e così l’uomo ha deciso di rivolgersi a piazza Cavour e, ancora una volta, dalla Cassazione è arrivato un caso di scuola. Scrivono, infatti, gli ermellini che «recentemente ricorre con una certa frequenza nella casistica della loro giurisprudenza il tema sulla possibilità di affermare la inesigibilità di una condotta di ottemperanza ai tributi da versare allo Stato, per difficoltà finanziarie del suo autore.

Si tratta – aggiungono – di questione delicata che non può che essere affrontata caso per caso, risultando impossibile la enunciazione di principi generali, sia un caso che nell’altro». Nelle motivazioni della decisione viene, poi, spiegato che il secondo grado ha commesso una erronea applicazione della legge. «La critica – chiariscono – si appunta sul fatto che i giudici di merito abbiano ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato sulla base di una considerazione del tutto formale (l’avere l’imputato stesso ammesso di essersi visto costretto alla omissione nel versamento del tributo dovuto), tralasciando di considerare le ragioni per le quali ciò era avvenuto». ”

Ovvero, la crisi e il fallimento.

LE RETRIBUZIONI

“La difesa, infatti, aveva provato che «la cooperativa della quale l’imputato è legale rappresentante, aveva praticamente un unico committente, che era fallito proprio nella imminenza della data di scadenza del pagamento delle imposte. Di conseguenza – è ancora la tesi degli ermellini – la cooperativa non aveva potuto fare altro che insinuarsi nel passivo del fallimento e, non disponendo di beni aveva destinato le poche risorse disponibili al pagamento degli stipendi
dei dipendenti e delle relative contribuzioni previdenziali”.

“Insomma, aveva preferito pagare gli stipendi piuttosto che le tasse. Da qui, la conclusione che «l’evasione contestata non poteva ritenersi ascrivibile a dissennatezza gestionale, né ad alcun altro intento truffaldino od omissivo, bensì solo a causa di forza maggiore indipendente dalla volontà dell’imputato stesso”.

Un’altra Corte ora dovrà rivalutare l’aspetto penale basandosi sui suggerimenti della Cassazione. Rimane aperta, invece, la questione fiscale: “difficilmente – dice Cristiana Mangani – lo Stato potrà chiudere un occhio sul debito di Iva”.