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Nuova Economia, obiettivo: “Scardinare gli oligopoli”

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ROMA (WSI) – Lidia Undiemi, dottore di ricerca in diritto dell’economia, già autrice di dossier e numerosi articoli riguardanti il mondo economico, ritorna a scrivere su Wall Street Italia per contribuire ad approfondire tematiche economiche e politico-istituzionali riguardanti il futuro dell’Italia e dell’Europa. I suoi studi non riguardano l’economia ‘pura’ ma l’ordine giuridico del mercato, espressione di una determinata volontà politica, che caratterizza l’economia in uno Stato di diritto. Proprio per questa sua visione interdisciplinare, Lidia preferisce essere definita studiosa di economia e diritto. Ed in effetti già da questo suo primo contributo emerge con estrema chiarezza lo scopo dei suoi studi economico-giuridici. Tuttavia, per ragioni di sintesi, e comunque nel rispetto dell’ottica di una visione ampia di studi economici, noi di WSI preferiamo definirla ‘economista’. Da oggi Lidia Undiemi torna quindi a essere l’economista di Wall Street Italia, con una serie di articoli e studi che saranno intitolati Nuova Economia. Ecco il primo.

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“Artificialità, giuridicità, storicità”, sono queste le parole con cui Natalino Irti – noto giurista – esprime sinteticamente la tesi che nega qualsiasi “naturalismo economico” che sopravvive alla ormai accantonata ideologia basata sull’esistenza di un diritto naturale contrapposto al diritto positivo che da corpo all’ordinamento giuridico di uno Stato (approf. sul suo libro, L’ordine giuridico del mercato, 2004).

In uno Stato di diritto l’economia di mercato è dunque “locus artificialis, e non locus naturalis“, basti pensare che il tanto acclamato rapporto di scambio che fa esistere l’economia assume efficacia vincolante fra le parti grazie alla possibilità di potere vantare un diritto sancito da un determinato assetto normativo.

Alcune banche spagnole, ad esempio, sono state salvate dai paesi dell’eurozona mediante lo ESM (European Stability Mechanism) di cui sono membri, ed è soltanto comprendendo l’uso del diritto sull’economia che è possibile anticipare le mosse che determinano il modo d’essere dei mercati oltre la legge della domanda e dell’offerta.

In Italia, così come in molti paesi dell’eurozona, il dibattito sulla crisi è incentrato sul ruolo dell’euro nella crisi europea, e non posso non condividere l’eccezionale lavoro svolto da alcuni economisti italiani, in primis Claudio Borghi e Alberto Bagnai, che con analisi alla mano hanno sfondato il muro di silenzio sulle conseguenze dell’unione monetaria.

Esistono però altre rilevanti questioni che travalicano in confini de “cambio fisso o variabile” e che accomunano gli stati aderenti all’euro e le identità territoriali dotate di una propria sovranità monetaria. Non si spiegherebbero altrimenti le crisi economiche che caratterizzano gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Basterebbe solo questa osservazione per mettere una lapide sul sogno (unico dato tecnico a supporto dell’obiettivo) della creazione degli Stati Uniti d’Europa quale metodo di risoluzione della crisi continentale (concediamoci un po’ di ingenuità, il risultato non cambia).

Una di queste è il sistema di partecipazioni incrociate banche-industrie o, secondo una visione più classica e accessibile, la corretta allocazione della moneta in un mercato (realmente) concorrenziale.

“Occorre ristabilire le regole di mercato, piuttosto che realizzare salvataggi bancari a spese dei contribuenti che generano l’insostenibile fenomeno della socializzazione delle perdite e della privatizzazione dei profitti. Se un’impresa fallisce deve fallire come le altre, senza privilegi di sorta. Gli istituti di credito hanno anche smesso di svolgere la primaria funzione di intermediazione del credito in favore della piccola e media impresa, nonostante i tassi siano bassissimi. Questa non è economia”, così Carlo Resta – uno dei più esperti operatori di mercato internazionale, e blogger assieme ad altre autorevoli figure fra cui il fondatore Nouriel Rubini di EconoMonitor.com – ha espresso sinteticamente, in un nostro recente dialogo, uno dei più grandi “mali” dei sistemi economici occidentali, chiarendo che “siamo di fronte ad un oligopolio dei gruppi bancari, oggi più grandi rispetto al periodo antecedente la crisi del 2008, poiché alcuni di essi hanno rilevato quelli in fallimento, ed attualmente svolgono funzioni che sono tra loro in conflitto di interesse. Perché non applicare in queste circostanze la legge Antitrus? Molti di questi gruppi dovrebbero essere nazionalizzati perché di fatto godono della garanzia dello Stato. Il Quantitative Easing, ad esempio, finisce quasi totalmente per essere “assorbito” dalle banche, e non, come dovrebbe, a favore dell’allocazione del credito alle imprese dell’economia reale” (per approf. Blabbing on the Consequences of Oligopolies Is Futile…).

Tali distorsioni neutralizzano gli effetti delle politiche espansive poiché tolgono “ossigeno” alle imprese “reali”, che sono inoltre costrette a subire una pressione fiscale altissima e un calo dei consumi accentuato dall’aumento dell’IVA e dai redditi sempre più bassi.

Ciò accade perché il core business bancario ha perso la sua ragion d’essere, smarrita dall’uso sapiente di una politica legislativa che ha facilitato un inaccettabile processo di deresponsabilizzazione e di trasferimento del rischio d’impresa (bancario e industriale) ai contribuenti. Comportamento agevolato dal sistema di partecipazioni “a catena” fra società dello stesso settore oppure incrociate, per esempio fra banche e industrie (si può negare il credito agli altri ma non a se stessi), che sfociano in conflitti di interessi, legalmente leciti (approfondiremo il significato) ma capaci di paralizzare le classiche leve macroeconomiche.

Difficile riuscire ad esprimere mediante questo primo approccio una sintesi che renda giustizia ad un tema così ampio e complesso, saranno pertanto realizzati su Wall Street Italia una serie di analisi più dettagliate con esempi significativi partendo da una considerazione preliminare: cos’è un gruppo di società?

Il punto di arrivo sarà quello di dimostrare che la degenerazione dei mercati economici e finanziari dipende anche da quella variabile “giuridica” che scardina il necessario nesso fra governo delle attività e assunzione del rischio, alimentando quella che ho più volte definito come “economia apparente”.

Chiudo citando una frase contenuta nel libro “Crisi finanziarie e regolamentazione” di V. D’Apice e G. Ferri (2011) a proposito delle banche giapponesi:

“Le partecipazioni incrociate costituiscono, infatti, un meccanismo di sostegno reciproco tra banca e gruppo industriale e rendono arduo per la prima negare i finanziamenti al secondo, anche in situazioni ove la qualità del gruppo industriale è degradata, generando così un inestricabile conflitto di interesse”.