Se si esclude l’ovvio rialzo dei tassi che verrà annunciato in giornata, soltanto il secondo in dieci anni di tempo, ci sono ancora molte incognite sulla strategia che la Federal Reserve attuerà l’anno prossimo. Con ogni probabilità nell’ultima riunione del 2016 Janet Yellen eviterà di impaurire i mercati e manterrà un approccio da colomba che ha caratterizzato sin qui la sua presidenza alla banca centrale degli Stati Uniti.
Le iniziative che la Fed adotterà nel 2017 sono ancora avvolte nel mistero e le previsioni degli analisti in materia di tassi di interesse variano in media da uno a due strette monetarie. Il fatto che la decisione sui tassi di dicembre sia data per scontata (addirittura al 100%) dai mercati non vuole affatto dire che la riunione non sarà seguita con estrema attenzione da mercati ed economisti, che cercheranno di esaminare nel dettaglio qualsiasi riferimento alle prossime mosse di politica monetaria.
Sotto la lente degli analisti finiranno anche eventuali riferimenti all’incertezza politica, in vista del cambiamento dell’amministrazione a Washington. Nella prima riunione di politica monetaria da quando Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti, Yellen è chiamata a fare un po’ di chiarezza sulla sua agenda per il 2017. Sarebbe molto utile anche per gli investitori e per gli analisti, che al momento nuotano in alto mare.
Ritchie Tuazon, gestore di Capital Group, dice che sarebbe sorpreso se assistesse a due o tre aumenti del costo del denaro, “o persino a un taglio dei tassi”. Il money manager punta dunque su uno o zero aumenti dei tassi, ma non se la sente di escludere né un allentamento monetario né una politica monetaria più aggressiva. La confusione è tanta e l’unica certezza è che gli interventi della banca centrale statunitense – questo Yellen lo ha chiarito – dipenderanno soprattutto dai dati economici. Capital Group ritiene, tuttavia, che alla fine “nel campo dei fondamentali la Fed porterà avanti una politica piuttosto accomodante“.
Tassi, Fed aggressiva non aiuterebbe Trump
“Sul fronte dei tassi di interesse, subito dopo le elezioni presidenziali USA i rendimenti dei titoli a 10 anni sono aumentati di circa 25 punti base rispetto ai livelli precedenti le elezioni. Questo incremento si basa su due fattori. Il primo è che nei prossimi anni la mancanza di esperienza politica di Trump determinerà un aumento dell’incertezza“.
Questo significa che gli obbligazionisti dovranno esigere un premio maggiore per la detenzione di titoli di Stato USA. Il secondo motivo citato da Tuazon è che “la spesa in infrastrutture e le riduzioni fiscali che Trump ha messo in agenda potrebbero provocare un ampliamento del deficit di bilancio, che si tradurrà in un incremento dell’offerta di Treasury, e quindi dei rendimenti”.
In questo caso tutto dipenderà innanzitutto dalla capacità di Trump di convincere il Congresso e i suoi colleghi di partito a non bloccare un eventuale bazooka di espansione fiscale. Il piano di Trump presenta infatti una differenza di 12 mila miliardi di dollari alla voce deficit rispetto alle stime del budget approvato dal Congresso. Non è detto che gli stessi Repubblicani lo approvino.
Secondo gli analisti di Jupiter Asset Management, poi, una politica della Fed più rigida, seppur in modo graduale, “non è uno scenario particolarmente favorevole per un programma di stimolo fiscale aggressivo come quello prospettato da Trump”.
“Paradossalmente, il presidente eletto dovrà fare affidamento sui programmi di acquisto di asset della Banca Centrale Europea e della Bank of Japan per tenere sotto controllo i rendimenti, che porterebbero gli investitori verso i Treasuries per ottenere migliori rendimenti nel momento in cui l’amministrazione cercherà di finanziare il proprio programma di sviluppo delle infrastrutture”. Questo potrebbe aiutare nel breve termine, ma creerebbe però una certa fragilità nei mercati obbligazionari.
Fed, tassi resteranno abbastanza bassi
Nonostante queste cause di incremento dei rendimenti, gli analisti di Capital Group continuano a essere convinti che i tassi di interesse resteranno abbastanza bassi. Questo perché “le tendenze protezionistiche di Trump potrebbero essere di ostacolo alla crescita, andando a compensare le voci di spesa fiscale che riuscirà a far passare al Congresso. Inoltre, riteniamo che la Fed aumenterà i tassi di interesse molto gradualmente”.
Per quanto riguarda invece l’andamento dell’inflazione, negli ultimi dodici mesi l’inflazione “core” dei prezzi al consumo (l’indice CPI che esclude le componenti più volatili di cibo ed energia) ha registrato un incremento del 2,2%, avvicinandosi decisamente all’obiettivo di inflazione fissato dalla Fed. Il tasso di disoccupazione, al 4,9% a ottobre, è anch’esso prossimo alla stima di pieno impiego della Fed. Il tasso sui Fed Fund è ancora ben al di sotto dell’1% (il che riduce il costo dei prestiti per aziende e privati), pertanto Tuazon ritiene “che ci siano tutte le condizioni perché l’inflazione continui ad aumentare“.
Secondo il gestore di Capital Group la vittoria di Trump “non fa che rafforzare le prospettive di inflazione”. Qualsiasi modifica apportata agli accordi sugli scambi commerciali o sulle tariffe doganali “eserciterà una pressione al rialzo sui prezzi all’importazione e l’incremento della spesa pubblica, insieme ai bassi livelli di disoccupazione, stimolerà i salari e, per estensione, l’inflazione”.