Il dibattito sull’impatto del fintech e dell’open banking sulle banche italiane è tornato caldo nelle ultime settimane a seguito di un post su Linkedin di Marie Johansson, ex country manager per l’Italia della fintech svedese Tink, che a fine aprile, in occasione del suo cambio di lavoro (è passata al business development del custode italiano di bitcoin Conio), si è tolta qualche sassolino dalla scarpa sull’open banking in Italia.
La manager scrive:
“L’Italia è entrata nell’open banking più tardi di altri paesi (in Spagna l’open banking è disponibile dal 2003, in Svezia dal 2012), ma questo significa anche nessuna legacy e la possibilità di imparare dagli errori degli altri. Purtroppo l’Italia è partita con il piede sbagliato. Sembra che l’intero ecosistema si sia fissato ciecamente sullo standard del gruppo di Berlino e si sia completamente dimenticato di leggere i Regulatory Technical Standards (RTS) per la PSD2. Questo insieme a un pesante protezionismo e un approccio difensivo, ha reso le prime versioni delle API (Application Programming Interface, ossia un insieme di definizioni e protocolli per la creazione e l’integrazione di software applicativi, ndr) aperte inutilizzabili per i TPP (Third Party Payment Services Provider, ndr) e gli utenti finali. Fortunatamente questo sta cambiando e anche se non c’è ancora nessuna banca che sia conforme agli RTS, abbiamo visto enormi miglioramenti. Non c’è da stupirsi che l’uso di soluzioni di open banking in Italia sia basso”.
Abbiamo fatto il punto sul tema con Filippo Maria Renga, cofondatore degli Osservatori Digital Innovation della School of Management del Politecnico di Milano, dove è attualmente direttore anche degli Osservatori Fintech & Insurtech, Innovazione Digitale nel Turismo e Smart AgriFood.
In Italia l’adesione all’open banking è solo formale
“Le istituzioni finanziarie hanno avuto una certa inerzia nell’applicazione dell’open banking in tutta Europa. In Germania e Svezia, dove sono nate queste tematiche, gli operatori sono stati più proattivi”, spiega Renga. La spinta all’open banking è arrivata dalla normativa, ma a suo avviso il passaggio successivo della PSD2 sarà l’open finance, per cui la direttiva dovrà essere applicata a tutti coloro che offrono servizi finanziari: retail, assicurazioni, utilities, telco ecc.
L’open finance è spinto anche dal tema dell’opportunità strategica dell’innovazione, per cui i consumatori sono predisposti a cercare altri servizi oltre a quelli finanziari, ad esempio quelli di identità. Non c’è stata alcuna spinta normativa in Usa, dove abbiamo delle esperienze di open banking di fatto. “Ma open banking e open finance in realtà hanno una forte trazione europea”, precisa il professore.
E in Italia? “Siamo nella media europea, con le banche incumbent compliant alla normativa, ma la sua implementazione pratica resta complessa. Abbiamo in generale un’adesione formale alla normativa, salvo alcuni casi virtuosi come Banca Sella e Fabrick”.
I freni all’open banking in Italia
L’Italia soffre la difficile integrazione tra startup e banche in termini di API. Secondo Renga, il problema è più culturale che tecnico. “Predisporsi all’open finance richiede un approccio strategico e un cambio di mentalità, innovando internamente e coinvolgendo anche altri attori esterni. È difficile fare open innovation”, sottolinea.
Senza dimenticare che in Italia abbiamo anche dei seri problemi di competenze digitali e di consapevolezza delle potenzialità del digitale. Basta guardare i dati sulla diffusione dell’online banking nel nostro paese. Ciò frena il percorso di acquisizione delle giuste competenze e tecnologie per innovare in modo efficace. Come se ne esce?
Le possibili soluzioni per favorire l’open banking in Italia
Secondo Renga, la via maestra è coltivare le competenze digitali con percorsi di formazione. “Bisogna capire cos’è l’open finance, quali strumenti la possono abilitare, cosa cerca il mercato. Si tratta di un processo corale, partendo dai vertici aziendali, che devono sponsorizzare il cambiamento in prima persona. E le aziende devono cambiare processi di innovazione e sistemi informativi”.
Inoltre, il professore suggerisce delle modifiche alla normativa. “Si dovrebbe prevedere una PSD2 anche per gli attori non finanziari (si pensi a Linkedin, AirBnB, Facebook e Google), in modo che siano tenuti a mettere a disposizione i loro dati per i servizi finanziari, in modo che questi ultimi, a partire dall’analisi dei big data, possano costruire dei prodotti personalizzati e più adatti alle esigenze dei clienti”.