Quando l’Inps elabora l’importo della rendita pensionistica, lo fa tenendo conto di una serie di criteri predeterminati dalle norme di legge ed imprescindibili al fine di ottenere il calcolo esatto del quantum. Così, per esempio, se il valore dell’assegno coincide con la paga minima, l’istituto di previdenza, appurato che il novello pensionato non sia in possesso di alcun altro reddito, associa alla pensione le quote aggiuntive spettanti (incrementi/maggiorazioni).
Tutto pacifico e scontato? Non proprio! Nonostante la contestuale certificazione reddituale fornita tramite la dichiarazione dei medesimi dati personali e/o coniugali, la domanda viene quasi sempre liquidata senza il riconoscimento automatico di queste somme “accessorie”, ma formanti, in fin dei conti, un’unica prestazione.
Quindi capita molto spesso che, a fronte di una chiara, espressa, formale indicazione dei requisiti necessari per vedersi riconoscere prerogative intangibili, l’Inps provveda ad accreditarle esclusivamente all’avvenuta presentazione di una istanza successiva e specifica. E se un pensionato non ne è al corrente cosa succede? La risposta è una soltanto: il tempo passa e la prescrizione arriva.
L’effetto sconveniente per il pensionato è doppio: meno soldi nelle tasche (rispetto a quelli che gli spetterebbero di diritto) e l’impossibilità di recuperare le relative differenze a causa dell’operante prescrizione quinquennale. Dall’altra parte, la convenienza per le casse della previdenza è anch’essa duplice: un risparmio mensile enorme e la certezza, per di più garantita, di aver fatto ormai proprie indebitamente tutte quelle somme che i pensionati non hanno richiesto per tempo.
Tutto ciò premesso, accordando quel minimo sindacabile di buona fede nell’operato dell’Inps, si potrebbe pensare che alla base di queste “strane” abitudini non ci sia altro che un alto tasso di errori materiali o di disposizioni interne semisconosciute. Probabilmente la vera ragione andrebbe ricercata nel semplice “principio della domanda” in senso stretto.
Eppure alcune definizioni contribuiscono ad insinuare il dubbio, dando sostegno ad una perplessità difficilmente attenuabile; e infatti accade, seppur di rado, che al pensionato (come al titolare di assegno sociale) che ne abbia diritto, venga riconosciuta direttamente una maggiorazione sociale di 25 euro (o di 12, oppure di 40, o 80 euro), salvo scoprire però, a seguito di un controllo per niente trascendentale, che la quota effettivamente spettante è pari, ad esempio, a 130 o addirittura a 190 euro (in caso di assegno sociale).
E allora, se gli “incrementi” bassi, seppur sporadicamente, possono essere concessi congiuntamente alla domanda volta ad ottenere la pensione, perché mai questo non si verifica regolarmente? Perché, al cospetto di una nitida situazione dei redditi del cittadino e nel rispetto dei requisiti previsti, dell’aumento complessivo che gli appartiene, buona parte viene omessa? Principio della domanda… o metodo di risparmio?
Ognuno può trarre le proprie conclusioni.