Da qualche mese il mercato azionario cinese si muove in controtendenza rispetto al listino globale che, nel frattempo, fa segnare nuovi massimi. Le ragioni sono molteplici, macroeconomiche e geopolitiche. Vediamo più da vicino cosa sta succedendo e quali sono le prospettive per i prossimi trimestri.
Il dato di produzione industriale cinese relativo al mese di maggio appena pubblicato, +8,8% di crescita anno su anno, benché in valore assoluto resti elevato, non riesce a pareggiare le attese degli investitori che lo avevano previsto al 9,2%, in ribasso dal dato di aprile del 9,8%.
Questo è solo l’ultimo dei campanelli di allarme, in ordine di tempo, che suonano per la locomotiva asiatica. Già da diversi mesi infatti, il mercato azionario locale ha preso una strada diametralmente opposta a quella del listino globale che, sospinto dalla campagna vaccinale e dai corposi programmi di aiuto di Banche Centrali e Governi, continua a far segnare nuovi massimi. Le ragioni di tale divergenza sono molteplici ma hanno un unico denominatore: le politiche meno concessive della PBoC che, da diversi mesi ormai, cerca di porre un freno alla crescita indiscriminata di credito in Cina.
L’abbondanza di denaro, infatti, sta alimentando bolle speculative tanto nel settore immobiliare quanto nel mercato finanziario, in particolare nel segmento delle commodity.
La fiammata dei prezzi delle materie prime negli ultimi mesi, ha indotto le Autorità a correre ai ripari ponendo in essere la consueta “moral suasion” che il Governo cinese mette in campo quando la situazione si fa seria.
A tutte le società controllate dallo Stato è stata imposta una immediata riduzione delle posizioni finanziarie sui mercati esteri delle commodities e presto la National Food and Strategic Reserves Administration renderà disponibili alle aziende locali parte delle riserve governative di rame, alluminio e zinco. Era dal 2005 che il Governo cinese non metteva mano alle riserve strategiche, deputate esclusivamente a situazioni di emergenza.
Evidentemente l’eventualità che una crescita eccessiva dei prezzi alla produzione possa far deragliare una ripresa economica ancora fragile, deve essere scongiurata a tutti i costi.
A questo si aggiungono le incertezze relative alle quattro Asset Management Companies controllate dal Governo cinese e al destino degli oltre mille miliardi di crediti problematici che hanno in pancia.
Da mesi ormai il mercato attende di capire se il Ministero del Tesoro, azionista di maggioranza di Huarong, interverrà in aiuto della società che ancora non ha depositato il bilancio 2020 e che ha emesso obbligazioni, sia sul mercato domestico che su quello internazionale, per oltre 250 miliardi di dollari. Infine, non possiamo non citare la recente riunione del G7, che si è trasformata nella prima offensiva ufficiale dell’era Biden alla Cina.
Sul tavolo ci sono i medesimi argomenti portati avanti da Trump: aiuti statali anticoncorrenziali a società private, trasferimenti tecnologici forzati, violazioni della proprietà intellettuale. Un fronte comune fra Stati Uniti e Unione Europea, sebbene non sia scontato, non è da escludere. Nei prossimi mesi è quindi probabile che la debolezza del gigante asiatico possa continuare.
È fondamentale che l’azione del Governo finalizzata a limitare gli squilibri presenti in vari segmenti dell’economia, non soffochi la crescita dei consumi e degli investimenti privati, che sono in fase di recupero ma ancora lontani dai livelli pre-pandemia. Il rischio è che un’azione troppo decisa possa far deragliare la locomotiva con pesanti conseguenze anche per le economie occidentali.