di Alessandro Fugnoli (Kairos) Strategist del gruppo Kairos.

Elezioni Usa: il bivio, Trump come Reagan?

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Ci siamo annoiati per sette mesi (l’SP 500 è sugli stessi livelli di aprile, che poi sono gli stessi di tutto il 2015 con l’eccezione di agosto) ma per i prossimi mesi e forse anni lo spettacolo è assicurato. Da una parte le politiche monetarie stanno per lasciare il posto di comando alle politiche fiscali, dall’altra le politiche fiscali stesse stanno per essere governate da homines novi non collaudati (Trump e il nuovo Congresso) o, in alternativa, da un sistema che sarà paralizzato da una crisi costituzionale che si preannuncia di ampie proporzioni. Come sempre, la strada che percorrerà l’America sarà alla fine la strada che dopo qualche tempo percorreremo anche noi in Europa. È stato così con le politiche monetarie, sarà così anche con quelle fiscali. Quanto i mercati siano pronti a questi nuovi scenari lo vedremo già a partire dalla settimana prossima.

Cominciamo con la politica. Se la Clinton sarà presidente non lo sarà con un margine di consenso tale da portarsi con sé anche il Congresso. Ora è vero che il potere condiviso (esecutivo ai democratici e legislativo ai repubblicani) piace ai mercati, ma è altrettanto vero che, questa volta, i due poteri non si ignoreranno, come è stato negli ultimi anni, ma combatteranno aspramente tra loro. Le possibili irregolarità legate alla Clinton Foundation, oltre al già noto filone dei documenti classificati, hanno una probabilità elevata di tradursi in messa in accusa e, in prospettiva, in una procedura di impeachment da parte del Congresso.

Obama ha tempo fino a fine gennaio per concedere il perdono presidenziale alla Clinton. Se Trump vincerà le elezioni il perdono non sarà particolarmente controverso. Se a vincerle sarà invece la Clinton, il perdono da parte di un presidente uscente come Obama sarà estremamente impopolare. La prassi infatti è che sia il presidente entrante, appena legittimato dal voto popolare, a perdonare quello uscente, non il contrario. Ford perdonò il suo predecessore Nixon, così come Putin perdonò Eltsin in Russia. La Clinton, una volta presidente, potrebbe anche perdonare se stessa, ma è facile immaginare il prezzo politico che si troverebbe a dover pagare.

La vittoria di Trump, d’altro canto, aprirebbe una pagina certamente nuova, ma piena di incognite. C’è il precedente di Reagan, che vinse le elezioni del 1980 con uno spettacolare recupero nei sette giorni precedenti il voto. Reagan, durante la campagna elettorale, era stato criticato come un attorucolo improbabile, dalla pettinatura ancora più improbabile, che covava in sé, nei rari momenti di lucidità, paranoie guerrafondaie e istinti criptofascisti.

In realtà Reagan, pur lavorando solo mezza giornata e passando il resto del tempo a cavallo nel suo ranch, mise fine alla guerra fredda e portò l’America dalla stagflazione al boom economico. Certo, Reagan si avvalse della collaborazione ideologica e politica di altissimo livello dei neocon (democratici che si erano formati alla scuola filosofica di Leo Strauss prima di passare a un repubblicanesimo completamente rinnovato), ma i neocon, che produssero ottime cose sotto Reagan, ne produssero di molto discutibili sotto i due Bush.

Quello che spesso si dimentica è che Wall Street ci mise due anni prima di accettare Reagan. La borsa scese del 20 per cento dopo la sua elezione prima di salire del 145 per cento nei sei anni successivi. Il purgatorio dei primi due anni fu dovuto ai rialzi dei tassi da parte della Fed di Volcker non sufficientemente bilanciati dalle politiche fiscali espansive.

Trump avrebbe margini di manovra minori di quelli di Reagan. Si ritroverebbe a partire con un debito pubblico già alto e un rialzo dei tassi impatterebbe subito sul disavanzo. Quanto alla borsa, Regan se la trovò a livelli stracciati, mentre oggi siamo sui massimi storici. Trump stesso, da più di un anno, lancia ammonimenti sulla borsa troppo alta.

Trump passa per uno spendaccione che farebbe esplodere, come capitò a Reagan, il disavanzo pubblico. Si trascurano però due cose. La prima è che Trump da una parte annuncia di volere abbassare le tasse ma dall’altra non smette di denunciare l’elevato livello di debito dell’America. La seconda è che Trump si è scelto il poco spettacolare Pence come vice non solo per assicurarsi il voto degli evangelici, ma anche perché a Pence, in Indiana, è riuscito di abbassare le tasse, aumentare le spese sociali e allo stesso tempo avere gli applausi delle agenzie di rating per il risanamento finanziario conseguito.

I mercati, a questo punto, si trovano di fronte a un bivio tra due strade entrambe difficili. Da una parte, con la Clinton, la continuazione delle politiche monetarie attuali in versione sempre più stanca e l’impossibilità di attuare politiche fiscali seriamente espansive per l’opposizione del Congresso. Dall’altra un Trump a cui è difficile, se non impossibile prendere le misure e che dovrebbe faticare non poco per superare non solo la dura opposizione democratica, ma anche le divisioni tra repubblicani.

È inutile negarlo, i mercati azionari hanno più spazio per scendere che per salire, almeno nei prossimi mesi. I periodi di passaggio da un’amministrazione all’altra sono del resto sempre delicati, soprattutto quando le amministrazioni hanno avuto una lunga durata e hanno lasciato un segno. Reagan, Clinton, Bush figlio e Obama hanno tutti governato per due mandati. Se sono stati rieletti dopo il primo quadriennio è perché l’economia cominciava ad andare bene e perché una Fed compiacente, ogni volta, aveva tardato ad alzare i tassi e tollerato il formarsi di bolle. Sarà una combinazione, ma i crash di borsa del 1987, del 2000 e del 2008 sono capitati alla fine del secondo mandato di amministrazioni di successo, un successo fin troppo premiato dai mercati.

L’aspetto positivo è che questa volta non ci sono, almeno per adesso, elementi per pensare a correzioni pesanti. In questo particolare momento Stati Uniti, Europa e Cina vanno abbastanza bene, mentre le banche centrali di Europa, Giappone e Regno Unito si apprestano a ritirare dal mercato, nei prossimi 12 mesi, altri due trilioni di titoli. Anche se l’America dovesse fare in tempo a produrre mezzo trilione di disavanzo in più di espansione fiscale, l’effetto netto sarebbe comunque di un trilione e mezzo di titoli tolti dalla circolazione, con effetto benefico per il prezzo di tutti gli altri.

La prudenza che raccomandiamo, d’altro canto, è soprattutto rivolta all’azionario e ai crediti. I bond di alta qualità, pur in un contesto di medio termine di rialzo dei tassi, avranno infatti fiammate positive sorprendenti nei momenti di correzione azionaria. Quanto al dollaro, non molto cambierebbe con la Clinton. Con Trump, anche in questo caso, tutto diventerebbe possibile. La combinazione di tassi in rialzo e politica fiscale espansiva portò, con Reagan, a un fortissimo rialzo del dollaro (che però partiva da livelli depressi). La voglia di rinegoziare i rapporti commerciali con il resto del mondo potrebbe però indurre Trump a usare il dollaro, indebolendolo, come arma di pressione.

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