Mentre scrivo questo editoriale, le trattative per fermare la guerra continuano, anche se per ora non si è ancora arrivati a un accordo. La pace è l’obiettivo più importante ma, da un punto di vista economico, anche se si dovesse arrivare a una risoluzione difficilmente si riuscirà a tornare alla situazione precedente il conflitto: le sanzioni nei confronti della Russia rimarranno in piedi, molte sue riserve valutarie resteranno congelate, l’Ucraina dovrà essere ricostruita e saranno necessari maggiori investimenti nel campo energetico e militare.
Come previsto, i rincari delle materie prime dovuti alla guerra e alle sanzioni spingono verso l’alto l’inflazione, che a livello globale potrebbe salire di 1 punto percentuale in più rispetto a quanto precedentemente atteso, attestandosi al di sopra del 5% nel 2022.
Ciò avrà ricadute sul potere d’acquisto delle famiglie, un tema che può avere conseguenze anche politiche in alcuni Paesi. Vista l’incertezza economica, le banche centrali si trovano quindi in un dilemma ma, non senza titubanza e divisioni interne, nelle economie emanate sembrano indirizzate a continuare il percorso di rialzo dei tassi e il riassorbimento della liquidità in eccesso. La scorsa settimana la Federal Reserve ha inaugurato un ciclo di rialzo dei tassi esprimendo le proprie preoccupazioni riguardo l’inflazione.
Sulla base dei prezzi attuali delle materie prime, delle difficoltà di reperire componenti per alcune industrie e del crollo degli scambi con la Russia, abbiamo ridotto le aspettative sulla crescita del PIL globale dal 4,6% al 3,6%.
La guerra implica un profondo cambiamento di scenario, con ramificazioni non sempre immediatamente valutabili.
Gli Stati Uniti sono indipendenti da un punto di vista energetico e hanno minori impatti derivanti dai rincari delle altre materie prime, quindi i riflessi sull’economia americana sono abbastanza contenuti (stima di crescita del PIL 2022 al 3,6%). Più pesanti le conseguenze per l’Europa, che stimiamo aver perso oltre 1 punto percentuale di PIL: le nostre aspettative per quest’anno sono scivolate al 2,9% e non tengono conto di eventuali stop alla fornitura di materie prime da parte della Russia.
In termini relativi, l’Italia è tra i Paesi più esposti e ci aspettiamo che la crescita si fermi al 3,3%, un dato comunque importante in considerazione degli stimoli fiscali e della ripresa dei servizi dopo due anni di pandemia.
L’inflazione nella zona euro potrebbe superare il 7% in primavera, per poi diminuire gradualmente. I governi dovranno aumentare le spese per la difesa e l’energia, stanziare finanziamenti per i rifugiati e fornire ammortizzatori per le famiglie.
L’Unione europea (UE) si trova in una posizione particolarmente delicata perché risente direttamente dalle tensioni con la Russia, che è un importante partner commerciale della regione. La capacità di arginare l’inevitabile danno economico dipenderà fortemente dal saper utilizzare questa crisi – come è successo in occasione del COVID-19 – per perseguire una maggiore integrazione e varare investimenti che possano migliorare produttività e domanda interna.
Il Recovery fund, che è finanziato con obbligazioni emesse dall’UE, potrebbe rappresentare un modello per finanziare maggiori investimenti nella transizione energetica e nella difesa, tuttavia le ultime dichiarazioni fanno pensare che riprodurre una struttura simile non sia all’ordine del giorno.
L’impatto sui mercati emergenti è eterogeneo. I Paesi esportatori di materie prime ne ricevono un aiuto. In particolare, alcuni Paesi sudamericani potrebbero essere gli inaspettati beneficiari delle tensioni sulle materie prime perché esportano petrolio, carbone, rame, soia e altre commodity a prezzi più elevati, migliorando sensibilmente la propria posizione finanziaria e i conti pubblici. Ciò potrebbe alleviare un periodo complesso dal punto di vista politico e sociale dopo la pandemia. Altri invece subiranno un contraccolpo che potrebbe avere conseguenze anche politiche, come avvenuto in seguito alla crisi finanziaria globale del 2008 con la primavera araba.
Per quanto riguarda la Cina, l’inizio dell’anno è stato caratterizzato da buoni dati economici. La guerra in Ucraina ha conseguenze negative anche per la Cina, nonostante il probabile aumento della sua influenza geopolitica. Ad oggi non è completamente chiaro se la Cina potrebbe trovarsi nella posizione di beneficiare di materie prime russe vendute a prezzi più bassi sui mercati internazionali per via dello stop alle importazioni da parte di alcuni Paesi.
Abbiamo marginalmente ridotto la nostra stima del tasso di crescita del PIL 2022 al 5%, soprattutto per effetto della politica di contenimento del COVID-19 che sta portando a lockdown in molte città, inclusa l’area di Shenzhen che conta 17 milioni di persone ed è centrale per la produzione di tecnologia. Diversamente dagli Stati Uniti e dall’Europa, la Cina sembra diretta verso politiche monetarie più espansive, anche perché l’inflazione si mantiene su livelli più bassi (2,7% per l’anno in corso).
Anche nel caso dell’India, alcuni media hanno suggerito che alcuni operatori locali cerchino di comprare petrolio russo sfruttando il forte sconto stante i divieti degli Stati Uniti, Regno Unito e Canada.
Ovviamente tutte le stime sono destinate a variare ancora sulla base degli eventi attinenti al conflitto in Ucraina. Si tratta di una situazione molto fluida che potrebbe avere esiti binari, anche per i mercati, a seconda dell’andamento delle trattative di pace.
Per esempio, assumendo che il prezzo del petrolio raggiunga 140 dollari il barile e si mantenga stabile fino alla fine dell’anno, la crescita verrebbe ridotta di un altro mezzo punto percentuale. Se poi la Russia riducesse del 50% le forniture energetiche all’Europa e il petrolio raggiungesse quindi i 180 dollari, l’Europa potrebbe scivolare in recessione.
Ogni crisi è diversa dalle precedenti: le crisi geopolitiche possono portare a cambiamenti economici di lungo termine, ma le borse tendono a dimenticarsene rapidamente. L’esperienza insegna che spesso ridurre il rischio dei portafogli può rivelarsi sbagliato, mentre aumentare la diversificazione e implementare qualche misura per contenere la volatilità sembrano le migliori soluzioni a disposizione degli investitori.
Per esempio, le materie prime e il settore dell’energia possono fornire protezione nei confronti dell’inflazione e dei rischi geopolitici. Restando sul tema dell’energia, la forte correzione dei titoli azionari collegati a tecnologie verdi, energie rinnovabili ed efficienza energetica potrebbe offrire nuove opportunità d’ingresso in un trend che caratterizzerà l’intero decennio – a maggior ragione in seguito al deterioramento dei rapporti tra Occidente e Russia. I governi continueranno a investire in modo consistente per contenere le emissioni di CO2 e, probabilmente, i recenti avvenimenti costituiscono un ulteriore incentivo a diversificare le fonti energetiche.
Anche il settore farmaceutico può dare un contributo difensivo, avendo performato male durante la pandemia perché sono diminuite le diagnosi di patologie minori, e ha quindi spazio di recupero.
Inoltre, la Cina è meno interessata dal conflitto in corso e ha una congiuntura e una politica monetaria disallineate rispetto alle nostre. Siamo tatticamente neutrali su questo mercato per via dei cambiamenti regolamentari, ma strategicamente l’azionario cinese può contribuire a una migliore diversificazione del portafoglio.