I crescenti dubbi sulla sostenibilità dell’attuale espansione economica hanno reso urgente un dibattito sulla risposta globale alla prossima recessione. Dopo anni in cui ci siamo focalizzati sulla politica monetaria, l’opportunità legata ad una politica fiscale più attiva e il relativo interesse hanno certamente guadagnato terreno.
I propositori di una risposta più coraggiosa in materia di politica fiscale sono emersi da scuole di pensiero più o meno ortodosse, riconoscendo un nuovo spazio comune.
Adottare un approccio di attivismo fiscale non richiede un ricorso alla teoria monetaria (MMT) o all’helicopter money. Né dovrebbe consentire ai governi di indebitarsi senza limiti o di evitare riforme strutturali urgenti laddove necessario.
Tale gestione della politica fiscale richiede piuttosto una valutazione pragmatica della realtà economica attuale e del ruolo che il debito pubblico può svolgere nel sostenere la crescita in un contesto caratterizzato da sfide urgenti a lungo termine (produttività debole e in calo, crescenti disuguaglianze), tensioni commerciali, un universo in espansione di debito con rendimento negativo e un’espansione economica ormai a fine ciclo.
Come ha recentemente sottolineato l’ex capo economista del FMI Olivier Blanchard, i costi fiscali e sociali del livello elevato di debito pubblico sono bassi e rimarranno tali fintanto che i tassi di interesse sono inferiori ai tassi di crescita nominali. Finché i governi potranno continuare a rinnovare il debito, con l’emissione di nuovo debito per pagare gli interessi, e la crescita della produzione supererà il tasso di interesse, i rapporti debito/PIL diminuiranno nel tempo anche in assenza di un aumento delle tasse.
La sfida di creare un quadro fiscale sostenibile con un chiaro indirizzo anticiclico è condivisa nei Paesi più sviluppati ed emergenti, ma assume una dimensione più “esistenziale” nell’Eurozona, dove il compito è ostacolato dalle posizioni fiscali molto distanti e dagli obiettivi divergenti delle diverse nazioni. I governi tedeschi sono stati tradizionalmente poco inclini a rilassare la disciplina fiscale, al punto da autoimporsi un obiettivo di bilancio in pareggio (il cosiddetto Schwarze Null o “black zero”) e un limite sul debito sancito constituzionalmente a partire dal 2008-2009.
Da allora, il calo della disoccupazione e la solida crescita hanno sostenuto la logica della Germania per mantenere il suo margine in materia di politica fiscale, nonostante le pressioni per ridurre l’ampio avanzo delle partite correnti. Nel frattempo, i governi con un margine di manovra più circoscritto sul fronte fiscale hanno scalpitato per aumentare la spesa.
La probabile entrata della Germania in una fase di recessione tecnica dovrebbe ribadire la necessità di un più ampio riesame del quadro politico e del ruolo della politica fiscale. Ignorare i segnali di recessione e conservare lo status quo comporterebbe anche l’incapacità di utilizzare il proprio margine di manovra fiscale per affrontare le potenziali minacce sistemiche alla crescita – protezionismo commerciale, rallentamento strutturale in Cina e un indebolimento del multilateralismo.
Mentre l’era dell’interventismo di politica monetaria sembra volgere al termine, i governi hanno l’opportunità, e allo stesso tempo la sfida, di riequilibrare le politiche verso la componente fiscale e di fare buon uso del debito pubblico. Sfruttato in modo responsabile, l’aumento del debito pubblico può essere utilizzato non solo per far fronte a un calo della domanda, ma anche per finanziare progetti di infrastrutture pubbliche, investire in iniziative volte ad affrontare il cambiamento climatico e, soprattutto, aumentare la produttività.
Le misure fiscali tendono ad essere utilizzate in risposta ad emergenze economiche – e si sospetta che, in Germania, si possa assistere a un significativo giro di stimoli solo se l’economia si deteriora significativamente – ma ritengo che abbiamo raggiunto il punto di inflessione per cui una politica fiscale “attiva” diventa necessariamente uno strumento proattivo piuttosto che reattivo.
I politici non sono necessariamente pronti per questo nuovo scenario e potrebbe essere necessario del tempo per attuare un più ampio passaggio di natura filosofica in direzione di una maggiore centralità delle politiche fiscali. Draghi, nel suo ultimo intervento, si è espresso a favore di una politica fiscale che svolga un ruolo più attivo nel sostenere la crescita, riconoscendo implicitamente i limiti del suo stesso esperimento monetario nel sostenere la traiettoria di crescita dell’Europa.
Gli albori dell’attivismo fiscale cambiano radicalmente il ruolo della BCE e del suo presidente. Il ruolo più importante di Christine Lagarde passerà da policy-setter a chief mediator, in un contesto di più stretto coordinamento tra politica monetaria e fiscale. Una politica monetaria unica – che ha ampiamente esaurito le sue opzioni – dovrebbe essere integrata da una politica fiscale modulata e coordinata nell’ambito di un quadro sovranazionale.
Tale approccio dovrebbe fornire una risposta efficace agli shock asimmetrici, garantire una funzione veramente anticiclica, e consentire la convergenza, garantendo al tempo stesso la stabilità dell’Eurozona nel suo complesso.
In definitiva, il contributo di Lagarde sulla politica fiscale sarà limitato al fronte della consulenza e saranno altri soggetti decisionali – governi nazionali, istituzioni europee – che dovranno intervenire. Dopo l’era del “whatever it takes” di Draghi, i progenitori di un quadro fiscale comune e adatto a un mondo di tassi negativi dovranno essere ugualmente attivisti e ambiziosi nell’assumere il ruolo di sostegno alla futura crescita economica.