Nel suo discorso di insediamento, il Presidente Donald Trump ha parlato di “fabbriche arrugginite abbandonate come pietre tombali nel panorama della nostra nazione” e ha ricordato che “la ricchezza… è sparita dall’orizzonte”, concludendo che “la protezione porterà più prosperità e più forza”. È con questa distopica valutazione che Trump ha riproposto la retorica protezionista della campagna elettorale.
Nella sua prima settimana da Presidente, Trump ha mantenuto la promessa di ritirare il Paese dal TransPacific Partnership (TPP), quando gli Stati Uniti avevano avuto un ruolo centrale nella definizione degli accordi con le altre 11 nazioni dell’Asia del Pacifico. Inoltre ha avviato i negoziati con Canada e Messico per una revisione dell’accordo di libero scambio nord-americano (NAFTA). Ancora non ci è dato sapere fino a che punto si spingerà la nuova amministrazione in materia di rapporti commerciali con il resto del mondo o, nello specifico, con la Cina.
In questo contributo descriviamo la posizione che gli Stati Uniti potrebbero assumere rispetto al commercio internazionale, ma da un differente punto di vista.
Esaminiamo innanzitutto le principali argomentazioni presentate da Peter Navarro, recentemente incaricato della direzione del National Trade Council statunitense, nel suo libro “Death by China”, dove solleva il problema dell’erosione della base produttiva statunitense iniziata nel 2001, quando la Cina è entrata a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC).
Anche se la voce di Navarro è solo uno dei molteplici pareri espressi dai diversi esponenti della nuova amministrazione, molti dei temi da lui trattati sembrano aver trovato un importante sostenitore nel Presidente Trump. Nonostante regni ancora grande incertezza sulla direzione ultima della politica commerciale del nuovo Presidente, siamo convinti che non seguirà necessariamente la teoria economica ortodossa del vantaggio comparato che l’aveva orientata in precedenza.
La partita chiave si gioca tra le politiche del commercio esterno (protezionismo puro e dazi doganali) e l’adeguamento delle politiche interne (una radicale svolta nella tassazione delle imprese) che potrebbero orientare gli incentivi più a favore della produzione domestica. Per quanto riguarda il primo punto, il Presidente ha
facoltà di imporre restrizioni e dazi doganali unilaterali sulle importazioni. Vedremoin dettaglio i settori che
potrebbero essere interessati, soprattutto considerando i rapporti commerciali tra USA e Cina. Valuteremo inoltre
le possibili ritorsioni della Cina a fronte di tali misure e la probabilità che si arrivi a una guerra commerciale.
Siamo fermamente convinti che una situazione di questo tipo avrebbe effetti devastanti sulle prospettive di crescita di Stati Uniti e Cina, ma anche del resto del mondo.
Rispetto al secondo punto, l’alternativa sarebbe una riforma della tassazione delle imprese che, comprendendo eventualmente una “tassa di confine” (BTA), bilancerebbe di gran lunga alcuni degli incentivi che negli ultimi quindici anni hanno spinto alla delocalizzazione della produzione statunitense. Dal momento che molte delle questioni legate al protezionismo e alla definizione del budget richiederanno probabilmente estenuanti negoziazioni con i partner esterni e interni, le attuali posizioni nelle negoziazioni potrebbero essere estremizzate.
“Death by China”
“Death by China”, pubblicato da Navarro nel 2011, ha ottenuto nei suoi principi basilari il sostegno del Presidente Trump e dei principali esponenti della sua amministrazione. Secondo Navarro, l’erosione negativa subìta dalla base produttiva USA da quando la Cina è entrata a far parte dell’OMC nel 2001 sarebbe il risultato di un insieme di fattori:
Assenza di un contesto competitivo equo. Il libro sostiene che il libero commercio con la Cina non avviene a parità di condizioni dal momento che il Dragone adotta standard ambientali meno rigorosi e normative più permissive in materia di sicurezza sul posto di lavoro. Inoltre, la Cina ricorre alla manipolazione valutaria e alle agevolazioni statali per creare un indebito vantaggio sulla produzione locale negli Stati Uniti.
Disallineamento degli interessi delle imprese statunitensi
Navarro sostiene inoltre che gli interessi delle multinazionali statunitensi, opportunamente orientati al valore per gli azionisti, non risultano allineati agli interessi generali dell’economia statunitense.
Di conseguenza, le aziende statunitensi non hanno sfruttato gli accordi commerciali dell’OMC per incrementare le esportazioni verso la Cina, ma per esternalizzare produzione e posti di lavoro in Cina al fine di trarre beneficio da questo vantaggio comparato. I governi che si sono succeduti negli Stati Uniti non sono riusciti, a suo parere, a risolvere questo disallineamento di interessi e hanno addirittura acuito tale tendenza. Nella misura in cui i diversi Presidenti hanno rafforzato attivamente l’“integrazione” della Cina e l’apertura del commercio, questo trasferimento è stato di fatto agevolato.
E ciò ha numerose implicazioni, secondo Navarro. La più evidente è l’ingente disavanzo annuo della bilancia commerciale USA (542 miliardi di dollari1), il 63% del quale è verso la Cina (341 miliardi di dollari) (Figura 1), oltre alla riduzione della quota di PIL spettante all’industria manifatturiera (dal 13,1% del 2005 all’attuale 11,7%) e alla perdita di 5 milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero da quando la Cina è entrata a far parte dell’OMC nel 2001. Stando alla tesi di Navarro, ciò ha determinato un trasferimento della proprietà intellettuale tale da incrementare la concorrenza nei confronti delle imprese americane, ma ha avuto anche conseguenze geopolitiche più generali. Navarro conclude che una “revisione dei rapporti commerciali” con la Cina non darebbe il via a una guerra commerciale perché, a suo giudizio, tale guerra è già in atto.
Quali sono le opzioni a disposizione del Presidente Trump?
Il Presidente Trump ha già iniziato a dare attuazione alle promesse della campagna elettorale, ad esempio con il ritiro degli Stati Uniti dal TPP e l’avvio delle trattative per una rinegoziazione del NAFTA. In un’ottica futura, egli ha facoltà di imporre restrizioni alle importazioni e/o politiche protezioniste. Maoprattutto, in queste sue decisioni, Trump sarebbe poco vincolato dal Congresso, anche se è lecito presumere che agirebbe con cautela a fronte di eventuali negoziazioni su altre politiche, come l’imminente budget, subordinate all’approvazione del Congresso. Accusare la Cina di manipolazione della valuta Dopo essere stata più volte minacciata dagli Stati Uniti, la Cina potrebbe essere formalmente etichettata come manipolatore di valuta, una decisione su cui ha piena discrezionalità il Segretario del Tesoro americano. Nonostante il Dipartimento del Tesoro disponga di tre linee guida per stabilire la necessità di un attento monitoraggio, il Segretario non è in alcun modo vincolato da tali linee guida.
Nello specifico, la Cina soddisfa solo una di queste linee guida.
- (i) Eccedenza bilaterale della bilancia commerciale con gli Stati Uniti > 20 miliardi di dollari (sì).
- (ii) Eccedenza delle partite correnti > 3% del PIL (no – l’eccedenza della Cina si attesta, stando alle stime, al 2,4% nel 2016 rispetto al 3,0% del 20152 ).
- (iii) Intervento ufficiale sul mercato dei cambi > 2% del PIL (no – la Cina sostiene l’RMB).
Ciononostante, la decisione del Segretario del Tesoro non è vincolata da queste linee guida. Queste linee guida possono inoltre essere reinterpretate per montare un caso cinese, ad esempio in passato la Cina è intervenuta per indebolire la propria valuta, l’eccedenza delle sue partite correnti risulta ampia in termini assoluti, anche se inferiore al normale criterio della quota % del PIL. E soprattutto, questi criteri non ci appaiono vincolanti per la decisione. Invece di accusare un Paese di essere un “manipolatore della valuta”, il Dipartimento del Tesoro americano potrebbe “avviare un potenziamento dell’impegno bilaterale” per gestire le cause e correggere la sottovalutazione.
Nel caso in cui, trascorso un anno, non vi sia stato alcun miglioramento della situazione è possibile: Vietare all’Overseas Private Investment Corporation (OPIC) statunitense di avviare programmi in Cina (anche se il divieto è già attivo in Cina dal 1989) Escludere il Paese dagli appalti pubblici statunitensi Incaricare rappresentanti commerciali di valutare una negoziazione degli accordi commerciali Anche se ai nostri occhi le conseguenze specifiche derivanti dall’accusa di “manipolazione della valuta” appaiono di secondaria importanza, nel caso della Cina tale decisione risulterebbe particolarmente simbolica e fungerebbe da dichiarazione di intenti.
Inoltre sarebbe un primo mezzo per portare la Cina al tavolo delle trattative. Per noi si tratta di una decisione rischiosa, pur non essendo del tutto ingiustificata, date le attuali linee guida del Dipartimento del Tesoro e la facoltà dell’esecutivo di mettere in atto misure alternative.
Imporre dazi doganali mediante l’autorità esecutiva USA
Il Presidente ha diverse strade per applicare dazi o contingenti all’importazione senza bisogno dell’approvazione del Congresso. In molti casi, queste decisioni potrebbero essere impugnate in un secondo tempo dal Congresso, anche se con tempistiche probabilmente molto lunghe.
Anche le procedure previste dall’OMG e nell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT) potrebbero richiedere parecchio tempo e non dare necessariamente i risultati sperati. Qualora Trump decidesse di seguire queste politiche, non incontrerebbe particolari ostacoli sul suo cammino fatta eccezione per una serie di ritorsioni reciproche, colpo su colpo. Essendo investito del potere esecutivo, il Presidente ha facoltà di approvare un cambiamento della politica commerciale, arrivando persino a imporre dazi del 35% e 45% sulle importazioni provenienti da Messico e Cina.
A seguire riportiamo una panoramica delle leggi che conferiscono tali poteri al Presidente. Il NAFTA e gli altri 20 accordi di libero scambio (FTA) siglati dagli Stati Uniti prevedono clausole di recesso con un preavviso di sei mesi. Trascorso questo periodo, il Presidente sarebbe libero di decidere in merito all’innalzamento dei dazi in linea con quelli della “nazione più favorita” (NPF) nell’ambito dell’OMC, previa consultazione del Congresso (ma senza che ne sia necessaria l’approvazione). Oltre a ritirarsi dagli FTA, il Presidente ha facoltà di applicare dazi/contingenti persino all’interno dei confini degli attuali FTA in virtù delle seguenti leggi. Il Trade Expansion Act (1962) (S232b) consente di introdurre dazi o di regolare le importazioni “nella misura necessaria a potenziare la sicurezza nazionale”.
Questa legge richiede un’indagine preliminare che evidenzi un problema di sicurezza nazionale (cosa niente affatto problematica dal punto di vista di Navarro). Nel 1971 Nixon se ne servì ad esempio per alzare del 10% i dazi sulle importazioni. Finora nessuna invocazione delle eccezioni in materia di sicurezza previste dal GATT è andata a buon fine (neppure quella presentata nel 1975 in relazione al limite alle importazioni di scarpe della Svezia!). Secondo il Trade Act (1974) (S122), il Presidente può imporre dazi fino a un massimo del 15% per un periodo di 150 giorni “per far fronte a importanti e gravi disavanzi nella bilancia dei pagamenti statunitense (sic)” (oggi interpretato come disavanzi delle partite correnti). Questa legge non richiede indagini preliminari e potrebbe spianare la strada ad altre leggi. Il Trade Act (1974) (S301) consente l’introduzione a tempo indeterminato di dazi doganali o altre restrizioni all’importazione “in risposta a pratiche commerciali sleali all’estero”. Nel caso della Cina, le normative poco rigorose in materia di tutela dell’ambiente e del lavoratore potrebbero essere utilizzate per invocare questa legge.
Pur essendo riservato ai “periodi di guerra…”, l’interpretazione legale del Trading with the Enemy Act (1917) non ne preclude necessariamente il ricorso da parte di Trump, dal momento che di recente l’esercito statunitense è stato impegnato in servizio attivo (anche gli avvocati di Nixon hanno invocato questa legge nel 1971, facendo riferimento alla Guerra in Corea che si era conclusa nel 1953). Questa legge conferisce ampi poteri e, da ultimo, non associa in alcun modo l’obiettivo delle misure commerciali adottate alle parti in guerra con gli Stati Uniti.
L’International Emergency Economic Powers Act (1977) è limitato a una “minaccia insolita e straordinaria”, ma i tribunali non hanno mai messo in discussione la dichiarazione di “emergenza nazionale” di un Presidente. Questa legge gli conferisce piena discrezionalità in merito all’entità dei dazi doganali e alle importazioni ad essi soggette. Evitare restrizioni generalizzate alle importazioni I membri dell’amministrazione Trump hanno discusso i vantaggi del libero commercio e lo stesso Trump si è dichiarato “disposto a lavorare con i Paesi disposti a lavorare con gli Stati Uniti”.
Non ci aspettiamo che gli Stati Uniti rompano tutti gli impegni internazionali, né che adottino un atteggiamento isolazionista/protezionista su molteplici fronti. Trump ha identificato chiaramente Cina e Messico quali obiettivi chiave del suo protezionismo commerciale. Ciononostante continuiamo a dubitare che l’amministrazione Trump intenda lanciarsi a capofitto nell’imposizione di dazi doganali generalizzati. Innanzitutto, tale decisione avrebbe un impatto evidente sui prezzi al consumo. Molti settori, tra cui abbigliamento e prodotti di pelle, componenti elettrici e apparecchiature, computer e prodotti elettronici, gas e petrolio, mostrano una forte penetrazione delle importazioni e sono orientati ai consumatori. Eventuali dazi applicati a questi settori sarebbero con tutta probabilità in gran parte trasferiti sui consumatori. Moody’s Analytics stima che in due anni ciò potrebbe determinare un incremento dell’inflazione di 3 punti percentuali3 , tanto da ridurre la crescita del reddito reale delle famiglie, mettere a rischio la crescita statunitense e penalizzare i gruppi rappresentati dai principali sostenitori di Trump.
Ciò ovviamente presuppone che non ci siano cambiamenti a livello di offerta. Uno degli obiettivi di questa politica dovrebbe essere lo spostamento della produzione dai Paesi assoggettati ai dazi. Tuttavia, in mancanza di una capacità produttiva adeguata negli Stati Uniti e senza altri cambiamenti in vista, è più probabile che la produzione si sposti dai Paesi assoggettati ai dazi ad altri Paesi (favorendo altre nazioni produttrici), piuttosto che ritornare in terra statunitense.
Difficilmente una politica così sfrontata verrebbe accettata senza contestazioni. Il Premier cinese Xi si è già espresso apertamente a favore del libero commercio nel discorso tenuto a Davos, mentre lo scorso 25 gennaio il Ministro cinese del Commercio ha manifestato la sua opposizione al protezionismo commerciale e ha messo in guardia contro l’“abuso di rimedi commerciali” da parte degli Stati Uniti. La Cina ha inoltre annunciato dazi anti-dumping sulle importazioni di cereali statunitensi. Siamo convinti che la Cina risponderebbe a un dazio generalizzato con ritorsioni altrettanto significative, con il rischio di una rapida escalation fino a diventare una guerra commerciale.
A dispetto della posizione di Navarro secondo cui la guerra commerciale sarebbe già in corso, un crescendo di ostilità di questo tipo a livello commerciale potrebbe avere gravi ripercussioni sull’economia statunitense. Secondo il Peterson Institute, una guerra commerciale totale (a seguito dell’imposizione di dazi del 45% sulla Cina e del 35% sul Messico) ridurrebbe la crescita allo 0,3% nel 20184 (la previsione centrale di AXA IM è dell’1,9%), per poi scendere in territorio negativo nel 2019. Inoltre, la disoccupazione salirebbe all’8,4% nel 2019, raggiungendo il massimo dell’8,6% nel 2020 (rispetto all’attuale 4,7%).
L’imposizione generalizzata dei dazi sarebbe inoltre in contrasto con i valori “fondamentali” del libero commercio difesi dai Repubblicani. Pur prendendo atto dell’ampia gamma di possibilità di espressione dell’autorità esecutiva di Trump in quest’ambito, riteniamo che in questa fase il Presidente vorrà evitare di inimicarsi l’intero Congresso Repubblicano visto che avrà bisogno del suo appoggio per gli altri provvedimenti di legge.
Il grande rischio dei dazi mirati
Mentre escludiamo il ricorso a restrizioni generalizzate alle importazioni, il rischio di un protezionismo mirato è decisamente più alto. Nella Figura sopra emerge chiaramente come diversi settori dominino il mercato delle importazioni statunitensi da 2.700 miliardi di dollari. La Figura sotto riportata, in cui compaiono i primi tre Paesi che forniscono esportazioni nei maggiori settori di importazione statunitensi, evidenzia la predominanza delle importazioni cinesi in tali settori e, in misura inferiore, di quelle messicane.
Riteniamo che molti dei timori legati alla penetrazione delle importazioni messicane potrebbero essere affrontati in primo luogo mediante la rinegoziazione del NAFTA. Nel frattempo, non dovrebbero essere applicati dazi speciali sui prodotti messicani mentre sono in corso queste negoziazioni5 . Tuttavia, vista la predominanza delle esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti, il rischio maggiore è che la nuova amministrazione imponga restrizioni alle importazioni di prodotti cinesi di settori specifici, nel tentativo di far fronte alla perdita di posti di lavoro/produzione ma anche di ridurre il disavanzo della bilancia commerciale.
La Figura 4 sotto riportata illustra in dettaglio le dimensioni delle importazioni statunitensi di prodotti cinesi e la relativa quota rispetto al mercato nel suo complesso. I settori evidenziati, ossia quelli con una forte penetrazione delle importazioni e un ampio disavanzo associato, sono quelli più esposti al rischio di un intervento. Come risulta dal grafico, un limitato numero di settori orientati al consumo, tra cui prodotti elettronici, abbigliamento e arredi, rappresenta la quota più consistente (72%) del disavanzo commerciale bilaterale tra Stati Uniti e Cina. Al contempo, tre di questi settori (abbigliamento, computer e prodotti elettronici, componenti elettrici e apparecchiature) sono quelli con la più alta penetrazione di importazioni.
Di conseguenza, temiamo che, abbracciando il protezionismo, l’amministrazione Trump possa concentrare le restrizioni alle importazioni su questi settori chiave. Va notato anche come i settori computer/ prodotti elettronici e componenti elettrici/apparecchiature (e non tanto l’abbigliamento) si possano associare a un aumento del potenziale di ricerca e sviluppo nei prossimi anni e a un impiego di personale altamente qualificato, oltre ad essere potenzialmente dotati di maggiori implicazioni per la sicurezza. Se la nuova amministrazione dovesse muovere i primi passi verso un protezionismo con dazi mirati, siamo convinti che si concentrerebbe su questi settori.
Ritorsioni ed escalation
È improbabile che la Cina sia disposta a ignorare anche solo l’imposizione di dazi mirati. La Cina potrebbe ricorrere a procedure ufficiali di ricorso mediante l’OMC, anche se queste richiedono tempi lunghi e non sempre danno i risultati sperati. Ancora una volta, l’intervento mirato sulle importazioni di cereali statunitensi sembra un chiaro segnale di avvertimento di una serie di ritorsioni reciproche che potrebbero essere avviate. Nello specifico, la Cina potrebbe seguire una logica del tutto diversa da quella statunitense nell’introduzione di tali misure di ritorsione: invece che puntare al guadagno economico, la Cina potrebbe cercare di infliggere la massima sofferenza possibile agli Stati Uniti, minimizzando le proprie perdite. Di conseguenza, le ritorsioni potrebbero concentrarsi sui settori in cui le esportazioni statunitensi verso la Cina rappresentano una quota importante delle esportazioni complessive di tale settore (infliggendo la massima sofferenza possibile agli USA) ma rispetto al quale, sul fronte cinese, le importazioni provenienti dagli Stati Uniti rappresentano una quota ridotta del settore (perdita minima per la Cina). Nella Figura 5 riportata più in basso, che combina questo duplice punto di vista, abbiamo evidenziato i settori caratterizzati da un mix di queste due prospettive. Prese da sole, queste misure, implementate su scala ridotta, dovrebbero avere un impatto trascurabile sull’economia statunitense nel suo complesso, ma i singoli settori potrebbero risentirne in maniera più importante.
Più in generale, la Cina può imporre alle imprese americane una serie di misure di natura non commerciale mirate a complicarne l’operato sul suo territorio, tra cui contestazioni su diversi fronti (corruzione, sicurezza, pratiche anti-concorrenziali, diritti di proprietà e così via) e un aumento di regolamentazione/burocrazia, impedendo altresì l’accesso a progetti pubblici. Data la natura controllata dell’economia cinese, le autorità avranno probabilmente un maggior numero di cartucce a disposizione rispetto alle controparti americane. Ciò che conta sarà però la portata delle ritorsioni e l’eventuale escalation. Ad ogni modo, il nostro scenario di base non prevede un’escalation della situazione, dal momento che entrambi i Paesi sono ben consapevoli dei danni economici che subirebbero con l’attuazione di generalizzate politiche commerciali protezioniste. Non volendo però essere troppo fiduciosi, confermiamo che c’è un effettivo rischio di peggioramento.
Un approccio alternativo: la riforma fiscale
Una soluzione alternativa potrebbe venire da una significativa revisione del sistema fiscale delle imprese USA. Lo stesso Navarro riconosce che l’attuale situazione è frutto di un mix di mercantilismo cinese, obiettivi delle imprese americane e politica del governo locale. Una componente importante della soluzione potrebbe essere rappresentata da una revisione degli incentivi destinati alle imprese statunitensi, una misura che sembra nelle corde dei Repubblicani al Congresso, anche se il Presidente non si è mostrato molto entusiasta della proposta. Da tempo si discute di una riforma generale della normativa fiscale statunitense. Le imprese statunitensi sono soggette a una forte pressione fiscale. Il regime di tassazione mondiale è anomalo rispetto alla maggior parte degli altri Paesi OCSE6 , mentre la tassazione degli utili esteri è stata aggirata dalle imprese USA tenendo il denaro all’estero, esternalizzando ed effettuando inversioni fiscali.
Una riforma della fiscalità aziendale basata sulla riduzione o sulla rimozione degli incentivi al trasferimento delle imprese statunitensi può essere una via alternativa per sostenere la produzione domestica, senza incorrere nei rischi associati a una guerra commerciale più generale. Alcuni elementi della riforma della fiscalità aziendale sembrano altamente probabili, come una sensibile riduzione dell’aliquota di base sui redditi societari dall’attuale 35%, il rimpatrio degli utili conseguiti all’estero a un’aliquota ridotta e alcuni cambiamenti dall’attuale sistema di tassazione basato sulla competenza a quello basato sul flusso di cassa (con conseguenti variazioni a livello di svalutazione delle spese e deducibilità dei tassi di interesse). Di conseguenza, verrebbero ridotti gli incentivi alla delocalizzazione della produzione.
Altri aspetti della riforma risultano invece meno certi. La proposta Repubblicana (non avallata completamente dal Presidente Trump) prevede il passaggio a un sistema di tassazione del flusso di cassa basato sulla destinazione (DBCFT) con una compensazione della tassa di confine (BTA). In sostanza in virtù di questo provvedimento, le esportazioni non sarebbero soggette all’imposta sul reddito delle società. Tuttavia, anche il costo del lavoro e quello di produzione sarebbero esenti dalla tassazione nel caso della produzione domestica (ma non in quello delle importazioni7 ). Se gli Stati Uniti dovessero passare a un sistema territoriale basato sul criterio di cassa, la tassa di confine sarebbe una compensazione necessaria per evitare l’erosione della base imponibile. Ma questo non è mirato a incoraggiare l’aumento delle inversioni fiscali delle aziende, l’esternalizzazione e i trasferimenti della proprietà intellettuale spostando produzione e lavoro all’estero, per poi reimportare i beni nel Paese e rimpatriare gli utili, senza incorrere in ulteriori imposte.
Inoltre il BTA dovrebbe incrementare in misura significativa le entrate e quindi avrebbe un ruolo cruciale nel garantire che il pacchetto complessivo della riforma risulti fiscalmente neutrale8 . Ciononostante, l’ipotetico BTA repubblicano, nella sua forma attuale, sarebbe certamente una violazione del principio di “parità di trattamento” dei prodotti importati e domestici a livello fiscale. L’imposta applicata sulla produzione domestica è espressa al netto dei costi di produzione e del lavoro domestici, ma è applicata sull’intero valore delle importazioni. Violando questo principio, la politica dovrebbe essere considerata protezionista nella sua forma attuale9 . Senza dubbio l’impatto del BTA dipenderà dalla reazione del dollaro, mentre resta incerto l’impatto sul disallineamento di risparmi e investimenti alla base dell’attuale disavanzo delle partite correnti. Se tale disallineamento dovesse restare invariato, la tassa di confine dovrebbe determinare un immediato rafforzamento del dollaro, con una conseguente neutralizzazione dell’impatto commerciale (incentivi all’esportazione compensati da un dollaro più forte, imposta sulle importazioni compensata da importazioni meno costose).
Secondo alcuni, i BTA “non sono una politica commerciale” proprio perché “l’abbinamento di compensazioni di pari entità… genera un terreno di confronto uniforme per la concorrenza domestica ed estera” nel momento in cui si permette l’apprezzamento del dollaro. Il dollaro dovrebbe salire del 25% per neutralizzare un BTA con un’aliquota d’imposta sulle imprese al 20%11 . In pratica, l’imperfetto adeguamento del dollaro, ivi compreso l’ancoraggio valutario, le rigidità dei prezzi e l’incompleta copertura del nuovo sistema fiscale implicano un apprezzamento del 25% del dollaro che è difficile da immaginare. Un’incompleta compensazione del dollaro determinerebbe nei settori con una maggiore penetrazione delle importazioni (abbigliamento, raffinerie di petrolio, auto e produttori di tecnologia) una tassazione relativamente superiore rispetto a quelli con una minore penetrazione delle importazioni (produzione di aeromobili e altri trasporti, commercio all’ingrosso ed editoria). I prezzi dei beni di consumo con una maggiore penetrazione delle importazioni risulterebbero relativamente più alti e sarebbe creato un incentivo a favore della produzione domestica che, nel corso del tempo, potrebbe avere un significativo impatto sull’evoluzione della produzione e quindi sul disavanzo della bilancia commerciale.
A sua volta ciò potrebbe erodere anche le potenziali entrate del BTA. Al momento restano incerte le prospettive della tassa di confine e della tassazione basata sulla destinazione. Preoccupato principalmente per la complessità del BTA, di recente il Presidente Trump se n’è uscito con un “non mi piace”; e in effetti il BTA sarebbe una radicale riforma del sistema fiscale la cui attuazione richiederebbe, con tutta probabilità, diversi anni. Di recente, però, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha menzionato una tassa del 20% sulle importazioni da utilizzare per il finanziamento del “muro” tra Messico e USA, lasciando intendere che l’ipotesi sarebbe ancora al vaglio. Nella sua attuale forma, il BTA sarebbe una palese violazione delle linee guida dell’OMC data l’esclusione dei costi di produzione e lavoro a livello domestico. Per risolvere il problema basterebbe una modifica dell’attuale proposta per consentire l’esclusione dei costi dei prodotti importati dalla tassazione BTA; tuttavia ciò ridurrebbe in misura sostanziale anche il potenziale aumento delle entrate.
Inoltre, il Peterson Institute segnala come le recenti controversie con l’OMC si siano protratte per diversi anni, come nel caso dei sette anni necessari per la composizione di una controversia fra Messico e Stati Uniti nel 2008. Come per le nostre preoccupazioni rispetto a un protezionismo più esplicito, ciò riaccenderebbe i timori di ritorsioni unilaterali, colpo su colpo, da parte di altre nazioni. La portata della riforma della tassazione societaria resta incerta. La proposta di una significativa riduzione dell’imposta di base sulle società e l’imminente abbandono del differimento della tassazione dei proventi realizzati all’estero (accompagnata dalla proposta di una tassa di rimpatrio a tasso agevolato) ridurrebbero molti degli incentivi che inducono le aziende americane a spostare all’estero la produzione. Queste misure contribuirebbero in misura notevole a dissipare i timori sollevati da Navarro rispetto al calo della produzione statunitense, senza incorrere nei rischi associati a una guerra commerciale più generale. La tassa di confine potrebbe contribuire ulteriormente a incentivare la produzione statunitense ma, a seconda delle sue caratteristiche specifiche, potrebbe essere considerata essa stessa una misura protezionista. Evoluzione in parallelo per la riforma fiscale e la politica commerciale L’insediamento del Presidente Trump ha fatto riemergere preoccupazioni di natura protezionista.
La direzione della politica resta incerta, visti i numerosi messaggi e obiettivi contrastanti emersi nei primi giorni di attività della nuova amministrazione. Siamo consapevoli delle forti incertezze che offuscano le prospettive future, ma in questa fase propendiamo per le seguenti previsioni. Un’analisi di stile Navarro fa da contrappeso a una valutazione economica più ortodossa dei benefici del commercio internazionale e della globalizzazione mediante il vantaggio comparato. Di conseguenza, le politiche commerciali sono in parte responsabili del disavanzo commerciale, della perdita di posti di lavoro e del trasferimento delle aziende.
Da tempo a Washington è in corso un ampio dibattito sulla strategia da adottare per affrontare nel modo migliore questi problemi. Secondo i Repubblicani più ortodossi, una riforma del sistema fiscale potrebbe rappresentare una buona soluzione, poiché ridurrebbe gli incentivi al trasferimento all’estero delle imprese statunitensi. La possibilità di introdurre la tassa di confine potrebbe persino orientare il sistema fiscale a vantaggio della produzione domestica, ma l’attuale proposta, che prevede l’esclusione dei costi di produzione e del lavoro, sarebbe probabilmente considerata una misura protezionista.
Comunque, all’interno della nuova amministrazione ci sono anche i sostenitori di un approccio protezionista più diretto. In questa fase, due Paesi in particolare sono sotto i riflettori della politica commerciale: Messico e Cina. Avendo già avviato le discussioni relative a una possibile riforma del NAFTA, riteniamo che la maggior parte delle preoccupazioni riguardanti i rapporti commerciali con il Messico confluiranno in prima battuta in tali negoziati. Non ci aspettiamo che vengano imposte politiche restrittive sul Messico mentre sono in corso le negoziazioni. La Cina sembra un problema più spinoso. Nel tentativo di avviare negoziazioni commerciali, l’amministrazione USA potrebbe accusare formalmente Pechino di manipolazione della valuta. Tuttavia, c’è anche la possibilità di ricorrere ai dazi doganali, materia su cui il Presidente ha ampio raggio d’azione.
Siamo convinti che dazi mirati siano più probabili di un approccio generalizzato, anche in ragione del possibile impatto negativo di un aumento dell’inflazione statunitense e degli ostacoli per l’attività economica derivanti da eventuali ritorsioni colpo su colpo della Cina. Rispetto ai dazi, a nostro parere risultano particolarmente a rischio i settori di computer/prodotti elettronici e componenti elettrici/apparecchiature in virtù degli ampi disavanzi bilaterali e della significativa penetrazione delle importazioni. Questi settori potrebbero inoltre essere considerati aree in grado di trarre vantaggio da una maggiore attività di ricerca e sviluppo, in alcuni casi con implicazioni sulla sicurezza. Per questa ragione, riteniamo che questi settori sarebbero ad alto rischio se gli Stati Uniti decidessero di applicare i dazi mirati. L’eventuale introduzione di tali misure comporterebbe, a nostro parere, un rischio elevato di ritorsioni da parte delle autorità cinesi, a cui farebbero probabilmente seguito ulteriori ritorsioni e un’escalation delle tensioni. Una vera e propria guerra commerciale andrebbe a incidere non solo sulle economie di Stati Uniti e Cina, ma anche su quelle di tutto il mondo. A nostro parere, i mercati finanziari stanno sottovalutando questi rischi, in parte per la mancanza di informazioni. A livello di tempistiche, tali politiche potrebbero seguire il dibattito sulla riforma fiscale, presumibilmente tra l’estate e la fine dell’anno, a conferma della natura interconnessa di queste politiche. Tuttavia, se questi rischi dovessero concretizzarsi verso fine anno o nel 2018 ne potrebbero risentire pesantemente il mercato e le imprese.