Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha intensificato la retorica sull’imposizione di dazi su miliardi di dollari di importazioni cinesi, e Pechino ha di conseguenza risposto. La replica degli investitori è stata finora pacata, ma questo sottovaluta il vero rischio di uno scoppio di una guerra commerciale su scala globale, regolarmente indicata dagli investitori come il maggior rischio dei mercati finanziari. A quanto pare non condividono l’opinione del presidente degli Stati Uniti, secondo cui “le guerre commerciali sono una cosa buona e si vincono facilmente”.
La cautela degli investitori è comprensibile. Il mondo non ha dimenticato gli insegnamenti della Grande Depressione, quando il graduale aumento del protezionismo contribuì alla lunghezza e alla gravità della crisi. Questo è il motivo per cui, dopo il crollo di Lehman Brothers, i paesi del G20 hanno deciso di astenersi dall’adottare misure protezionistiche, a quanto pare con un discreto successo.
Recenti simulazioni effettuate dalla BCE, che ipotizzano un innalzamento di 10 punti percentuali dei dazi su tutte le importazioni da parte degli Stati Uniti e i suoi partner commerciali reagiscono con un analogo aumento tariffario sulle proprie importazioni dagli Stati Uniti. Gli effetti indiretti sulla fiducia ipotizzati porterebbero i premi obbligazionari ad aumentare di 50 punti base e una flessione dei mercati azionari di due deviazioni standard in tutti paesi; per gli Stati Uniti, questo equivale a una correzione del 16% dei listini azionari.
Per gli Stati Uniti e la Cina gli effetti sulla fiducia sono minori dell’impatto commerciale diretto, il che potrebbe essere una sottovalutazione. Il risultato è che l’attività economica reale negli USA diminuisce del 2% rispetto allo scenario di riferimento nel solo primo anno. L’aspetto interessante, tuttavia, è che la Cina sembra trarre beneficio dalla guerra commerciale, dato che le minori esportazioni verso gli Stati Uniti sono compensate dagli scambi verso Paesi terzi, dove gli esportatori cinesi riescono a guadagnare quote di mercato a scapito dei concorrenti americani.
La conclusione della BCE riecheggia le precedenti simulazioni della Bank of England, secondo cui, in uno scenario simile, l’output statunitense potrebbe contrarsi del 2,5% e quello globale dell’1% attraverso i soli canali commerciali. La BoE ha osservato che l’impatto sul PIL mondiale sarebbe sostanzialmente maggiore se tutti i paesi innalzassero i dazi contro tutti gli altri.
La guerra commerciale di Trump non è limitata alla sola Cina, ma interessa anche l’Unione europea (si pensi all’ormai famosa lamentela riguardante le troppe BMW che circolano a Manhattan). Nonostante l’apparente esito positivo della visita del presidente della Commissione europea negli Stati Uniti per allentare le tensioni commerciali, durante un raduno elettorale in West Virginia, alla fine di agosto, Trump ha dichiarato: “Metteremo un’imposta del 25% su ogni automobile che arriva negli Stati Uniti dall’Unione europea“.
Guerra commerciale, si profila nuova escalation
L’ultima tornata di dazi statunitensi prevede un prelievo del 10% su 200 miliardi di dollari di merci cinesi a partire da settembre, in aggiunta ai dazi su 50 miliardi di dollari di merci entrati in vigore ad agosto. Nonostante le cifre da capogiro, i prodotti colpiti finora rappresentano solo una piccola quota del commercio mondiale. È quindi comprensibile che queste misure restrittive non abbiano ancora intaccato sensibilmente la fiducia dei produttori e dei consumatori. Questo spiega in gran parte la modesta reazione evidenziata finora dai mercati finanziari.
Tuttavia, all’orizzonte si profila un’ulteriore escalation. Gli Stati Uniti hanno minacciato di aumentare i dazi del 10% su 200 miliardi di dollari di merci cinesi, portandolo al 25% all’inizio del prossimo anno, se la Cina non “cambierà modo di fare”, anche se non è ancora del tutto chiaro quale sia l’obiettivo negoziale di Washington nei confronti di Pechino.
Trump potrebbe uscire politicamente indebolito dalle elezioni di metà mandato del 6 novembre, ma è improbabile che ciò avrà un impatto sulla sua politica nei confronti della Cina, in quanto una linea dura contro il Paese incontra il favore dell’opposizione democratica e anche di parti significative del settore privato statunitense.
Tuttavia, le pressioni esercitate dal presidente statunitense sull’Europa potrebbero diminuire a causa della mancanza di supporto. In vista delle elezioni presidenziali del 2020, Trump potrebbe scegliere di mantenere alte le tensioni politiche con la Cina, nella speranza che questo aumenti le sue chance di rielezione.
I dazi più elevati diventerebbero così una caratteristica permanente nei prossimi anni. L’escalation della guerra commerciale ha pochi risvolti positivi per gli investitori, i quali possono solo sperare che la situazione non degeneri ulteriormente.