Si inizia a vacillare. A soli quattro mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina, il grido di rilancio delle rinnovabili sembra già attenuarsi. Addirittura, pare esaurito. Iniziano a circolare dichiarazioni che sostengono che gli investimenti ESG non sono più di moda. Da alcuni sondaggi emerge come gli investitori guardino alla tassonomia come ad uno strumento che limita le opportunità di investimento. E l’uscita dai fondi ESG pare un rischio reale nella seconda parte dell’anno: più il verde è intenso, maggiori saranno i rimborsi. Investimenti come l’idrogeno sono visti di durata troppo lunga e scarso profitto, visti i costi ingenti e un utile negativo per almeno due anni. Senza contare che il rialzo dei tassi rafforza questa previsione.
A dar sostegno a tale tesi ci sono le notizie di Germania, Austria, Italia, Belgio e altri Paesi europei che per far fronte all’emergenza energetica non solo procrastinano la chiusura delle centrali nucleari, ma riaprono le famigerate centrali a carbone.
Quindi, tutto finito? I cospicui dividendi delle compagnie petrolifere fanno gola a molti. D’altronde, con un costo del barile arrivato alle stelle, e flussi di cassa da record, chi non vorrebbe investire nei giganti dell’oro nero? Anche la difesa, con lo scoppio della guerra, ha fatto rivedere i piani di investimento di molti fondi ESG, che adesso scremano le armi generiche dalle vietate armi non convenzionali.
Pare che la finanza investa con un orizzonte a breve termine, piuttosto che puntare su ritorni di medio e lungo periodo. Guidati dalla frenesia di avere performance positive in tre, sei mesi o un anno, i fondi cercano cavilli per non perdere opportunità di investimento che allieterebbero i loro clienti.
ESG e trasformazione energetica
Si sa che la trasformazione energetica europea durerà trent’anni. Forse di più, ma la direzione non è affatto cambiata. Anzi, gli obiettivi sono rivisti al rialzo ogni qualvolta un evento esterno porta scompigli nello stato delle cose: partendo dal Green Deal, passando per il Next Genration EU al momento dello scoppio della pandemia da Covid 19, al Fit for 55 e l’ultimo RepowerEU, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina. I fattori contingenti sono pari alle fasi di mercato: un bear market può durare uno o due anni, ma nel lungo periodo chiunque puntasse sistematicamente su un mercato al ribasso probabilmente perderebbe solo soldi. L’Europa è fermamente convinta di questo cambio epocale, come sottolineato dalle parole di Ursula von del Leyen, la quale ha ribadito che si deve usare la crisi per spingersi avanti e non per tornare indietro verso l’inquinante fossile. Anche le compagnie petrolifere lo sanno e approfitteranno degli ingenti flussi di cassa derivanti dall’attuale prezzo del petrolio per spingere maggiormente su una trasformazione che è inevitabile.
Lo stesso vale per i governi che oggi riaccendono le centrali a carbone: in Germania a dare la notizia della riapertura di queste fonti di energia fossile è stato il ministro dell’Economia Habeck, parte del partito dei verdi. Un sostenitore dell’energia pulita che ha fatto un simile annuncio perché costretto da una repentina riduzione del gas russo del 40%, che ha reso la situazione insostenibile. Sì, insostenibile oggi, ma una volta finita l’emergenza, cosa accadrà?
Il problema è che se gli investimenti privati non aiuteranno gli incentivi governativi, sicuramente la trasformazione energetica subirà un rallentamento. La finanza deve fare la sua parte in questo periodo difficile e i ritorni arriveranno, anche per le energie che oggi non portano guadagni di per sé.
Ritornando al caso della poca profittabilità dell’idrogeno, per esempio, possiamo dire che dieci anni fa anche un impianto fotovoltaico per un appartamento non era profittevole. Il costo era intorno ai 30 mila euro e il solo risparmio energetico non consentiva di rientrare dall’investimento. Con gli incentivi statali, invece, realizzare un impianto simile avrebbe fatto guadagnare quasi 90 mila euro in vent’anni.
Anche l’idrogeno verde oggi non è profittevole dati i suoi costi, ma con i continui rialzi dell’Europa sulla creazione di elettroliti verdi (da meno di 1GW oggi, a 6GW nella proclamazione del Green Deal, a 17.5GW con il RepowerEU entro il 2025) c’è da sperare in un sostegno considerevole a riguardo.
Oggi un impianto fotovoltaico casalingo in Italia costa intorno a 10 mila euro e col prezzo dell’energia attuale si possono risparmiare fino a 1.500 euro all’anno. Senza contare gli incentivi alla ristrutturazione, abbiamo dunque ancora un investimento che triplica in vent’anni, ossia il 7.2% all’anno. E lo stesso accadrà con l’idrogeno, che sarà sostenuto dall’Europa finché non avrà la forza di continuare con le proprie gambe.
Chi investe nella trasformazione energetica, preannunciata come la più grande rivoluzione dopo quella industriale di due secoli fa, non può guardare a un orizzonte temporale di uno o forse di due anni, ma deve avere maggiore lungimiranza e la convinzione che un futuro più sostenibile sia possibile. Altrimenti il futuro che ci aspetta lo conosciamo già.