Dopo 12 mesi di attesa, le negoziazioni per la Brexit sono finalmente iniziate. Tuttavia, la scivolata politica seguita alle elezioni di giugno rende necessaria un’accelerazione a un viaggio che potrebbe durare più a lungo rispetto ai due anni auspicati dall’articolo 50. L’ipotesi del calendario proposto dai Conservatori – con il termine delle negoziazioni fissato a novembre 2018, seguito dai sei mesi necessari per la ratifica di Bruxelles e un periodo di almeno due anni affinché vi sia un adeguamento soft entro le elezioni previste nel 2022 – sembra troppo ottimistica.
Quel che ci si aspetta è, infatti, che al Regno Unito possa essere concesso un rinvio nella negoziazione degli accordi commerciali. Tuttavia, esiste il rischio che le negoziazioni possano ricondurre Londra al punto di partenza nel raggiungere gli obiettivi di sottoscrizione di accordi di libero scambio che le consentirebbe di avere accesso, senza essere membro delle UE, al mercato unico e all’Unione doganale, e di scongiurare alcuni problemi come la migrazione incontrollata e la pesante regolamentazione.
L’accordo sul libero scambio è fortemente voluto sia dal partito conservatore che dal partito laburista che guardano, come modello, a quello siglato tra Canada e Unione Europea e a quello in essere con la Turchia in ambito doganale. Ovviamente tutto ciò creerà un precedente sulle attuali alternative che uno Stato ha a disposizione per aderire o meno all’Unione Europea (vedi tabella 1 qui sotto).
Brexit, due le sfide per i politici britannici
Nel frattempo due sono le sfide che i politici britanni devono affrontare. Fino a quando il Regno Unito sarà membro dell’UE, esso non potrà sottoscrivere accordi bilaterali con gli Stati Uniti. Considerato però che tali accordi necessitano in media di quattro anni per essere effettivi, mette in evidenza come le trattative debbano essere necessariamente avviate oggi per raggiungere un accordo che sia effettivo prima delle elezioni inglesi del 2022.
L’altra sfida per i politici inglesi è quella di rimanere quanto più più vicino possibile al tavolo delle trattative con l’Europa, al fine di poter continuare a mantenere i migliori accordi di scambio e le regolamentazioni che disciplinano i servizi. Quest’ultima sfida è ancora più ambiziosa di quella di raggiungere un accordo di libero scambio simile a quello del Canada. I servizi finanziari, per esempio, rappresentano l’80% del valore aggiunto lordo UK (superiore rispetto al 50-60% di Germania e Francia) e possono essere considerati il cuore della crescita del Paese, in quanto forniscono vantaggi commerciali sproporzionati, occupazione e entrate fiscali.
Ciò ha creato un surplus nel settore dei servizi pari all’1% del prodotto interno lordo, con il 40% dei servizi finanziari in esportazione verso l’Unione Europea. Se il Regno Unito dovesse perdere i propri diritti di passaporto, si dovrebbero sopportare costi extra per la creazioni di sedi e filiali in altri centri, nonché costi di compliance per poter continuare a esportare i propri servizi all’estero.
È per questo che la BoE in questo momento è molto vigile sul fatto che la svalutazione della sterlina non produca maggiore inflazione. Anche se l’ipotesi di hard brexit è scontata dal mercato, la sterlina non ha ampi margini di risalita.
Tra le principali economie, nessuna ha infatti nel lungo termine allentato la generale impostazione della politica espansiva (monetaria e fiscale) come ha fatto il Regno Unito.
E considerato il premio dell’inflazione, c’è una bassa coincidenza con le altre economie dove le politiche espansive hanno sostenuto le valute più deboli.
Se la sterlina dovesse precipitare o le forze protezionistiche dovessero prevalere, l’inflazione riapparirebbe. Le nostre simulazioni mostrano che, ai livelli attuali del cambio USD/GBP e del prezzo del petrolio, il tasso RPI ha viaggiato attorno al 3,7% a maggio.
Ma la combinazione di una sterlina più debole e del rialzo del greggio potrebbero trainarlo al 4%. Ma sarà più un’inflazione da costi che un’inflazione da domanda, che potrebbe essere annullata da un rialzo dei tassi pari a 25 punti base, gli stessi effettuati dalla BoE per la riduzione dello scorso agosto. In assenza di un aumento dei salari reali, è improbabile che vi sia un rialzo dei tassi più aggressivo.
Se i salari reali dovessero aumentare per effetto di un aumento della produttività nel 2018, ci sarebbe poi un’ulteriore leva da sfruttare per mettere un tetto al rialzo dei tassi: la riduzione del deficit di bilancio di 445 miliardi di sterline attraverso la liquidazione di più della metà dei bond acquistati nell’ambito del QE.
La vendita di tali asset rappresenterebbe un ulteriore tentativo per evitare interruzioni delle negoziazioni. Riducendo i reinvestimenti si otterrebbe un effetto più soft rispetto a quello del taglio dei tassi e creerebbe lo scenario desiderato dal Governatore Carney per sostenere i consumi e mantenere bassi tassi di interesse.