Materie prime: tra ‘supercycle’ e stagnazione, decide la sostenibilità
Il tanto parlare su un possibile ‘supercycle’ delle materie prime ha messo gli importanti target governativi di “zero emissioni” in secondo piano, ma solo temporaneamente.
Sebbene alcune materie prime giocheranno un ruolo chiave nel passaggio ad un mondo a basse emissioni di CO2, nei prossimi anni alcuni asset diventeranno obsoleti, ovvero “stranded” – una minaccia molto realistica di cui gli investitori dovrebbero essere consapevoli.
I prezzi delle materie prime sono in forte rialzo da inizio anno: il Bloomberg Commodity Index ha riportato un +9%, mentre il prezzo del greggio ha toccato un +26% da ‘record’. Secondo la narrativa generale, l’aumentata domanda è in buona parte guidata dalle aspettative di una forte ripresa economica e dai grandi piani di spesa pubblica annunciati in infrastrutture.
Ma in questo contesto, festeggiare l’inizio di un ‘supercycle’ è una semplificazione eccessiva che trascura l’avanzamento tecnologico e la diffusione delle fonti di energia green negli ultimi anni.
Ma cosa s’intende precisamente quando ci riferiamo al ‘supercycle’? Un ‘supercycle’ è un periodo di tempo prolungato in cui i prezzi sono ben al di sopra della loro media degli ultimi anni. L’ultima fase di mercato ad esibire queste caratteristiche rispetto alle materie prime si è verificata nei primi anni 2000, quando la rapida crescita della Cina ha portato ad un forte aumento di domanda, che ha trovato un picco nel 2014.
Ma questa volta la situazione è diversa
In questo periodo di ripresa economica, i governi stanno concentrando i loro sforzi sul ‘build back better’, ovvero finanziare posti di lavoro, progetti ed iniziative che apportano sia uno sviluppo economico, che uno sostenibile. Molti progetti infrastrutturali attireranno una parte significativa degli investimenti governativi nei prossimi 10 anni. Tra questi ritroviamo diverse soluzioni a ‘zero emissioni’, come pannelli solari, turbine eoliche, veicoli elettrici e stazioni di ricarica per auto elettriche. Negli Stati Uniti, dopo il successo del pacchetto di stimolo fiscale da 1.900 miliardi di dollari, il governo Biden sta ora muovendo la propria attenzione verso un piano da tre mila miliardi di dollari in energia ed infrastrutture green.
A novembre in Regno Unito, Johnson ha annunciato un piano da 12 miliardi di sterline basato su 10 punti per quella che è stata definita una “rivoluzione industriale green”, che dovrebbe portare con sé 250.000 nuovi posti di lavoro.
Ma quali sono le materie prime che rappresentano le componenti fondamentali nelle tecnologie ‘green’? Il rame, ad esempio, è molto importante per auto elettriche e reti di ricarica, mentre il litio, grafite, nichel, manganese e cobalto sono molto utilizzati nelle batterie agli ioni di litio. Il palladio e il platino sono invece fondamentali per convertitori catalitici – usati per ridurre le emissioni nocive.
Le turbine eoliche invece sono prodotte utilizzando acciaio, che è prodotto dal ferro. I pannelli solari, infine, richiedono l’utilizzo di argento.
E il petrolio?
Un assente degno di nota, come avrete visto, è il petrolio. Dagli inizi di quest’anno, il prezzo del greggio ha trovato supporto dalle incrementate aspettative di ripresa economica, ma anche da tagli di produzione e dalla resistenza delle società petrolifere nell’investire in nuova infrastruttura produttiva. L’AD di BP (ex British Petroleum) ha infatti di recente annunciato che secondo alcune stime interne, il petrolio ha già raggiunto il suo punto di picco, e che quindi troverà davanti a sé un progressivo, inesorabile, declino di domanda. Questo dato, se vero, contrasterebbe nettamente con le stime pre-Covid, che anticipavano il 2030 essere l’anno del “picco di domanda di petrolio”.
In realtà, i segnali erano già chiari da tempo. Basti, ad esempio, guardare ai rendimenti azionari degli ultimi dieci anni: 100 dollari investiti nell’S&P 500 dieci anni fa valevano più di 350 dollari a novembre dell’anno scorso; lo stesso investimento, fatto nell’indice S&P Global Oil, avrebbe fatto perdere agli investitori 30 dollari nello stesso arco temporale.
Ma non tutte le speranze sono perdute per le compagnie petrolifere. Queste sono infatti davanti ad un’opportunità storica, quella di trasformare il loro core business nella direzione dell’energia pulita. Senza dubbio, il rialzo dei prezzi del petrolio osservato da inizio anno fornisce loro maggiore respiro e liquidità per eseguire questa transizione.
Management con uno sguardo al futuro
Investire in modo più determinato in rinnovabili è quindi un’importante opportunità commerciale per le aziende petrolifere. Questo richiederà però un deciso cambio di velocità, dato che secondo l’International Energy Agency (IEA) solo l’1% delle spese in conto capitale delle più grandi società petrolifere è usato per attività a bassa emissione di CO2. La decisione definitiva in materia da parte del management aziendale, sarà probabilmente cruciale nel definire il futuro delle stesse società, in una direzione o nell’altra.
Sviluppare progetti in netto contrasto con i propositi dell’Accordo di Parigi, porta inevitabilmente ad un crescente rischio finanziario per l’investitore. Man mano che il processo di decarbonizzazione globale andrà consolidandosi, la capacità generativa non ‘green’ che viene finanziata perderà, con ogni probabilità, tutto il proprio valore nell’arco di pochi anni (diventando un asset ‘stranded’).
Carbon Tracker Initiative, una ONG focalizzata sullo studio dell’impatto della transizione energetica sulle società generatrici di energia, ha individuato i 15 progetti più grandi approvati nel 2019 in divergenza con il contenere l’incremento di temperatura media globale tra 1,65 e 1,8˚C (secondo scenari energetici dell’International Energy Agency). Solamente per finanziare questi progetti, presto ‘stranded’, sono stati utilizzati dalle società finanziatrici 60 miliardi di dollari[3] in conto capitale.
Attenti alla ‘FOMO’
Secondo molti player di mercato, il “reflation trade” di cui si parla da inizio anno supporta il trend al rialzo dei prezzi di molte delle materie prime che occupano un posto cruciale in un futuro a basse emissioni di CO2. A fare eccezione è, neanche a dirlo, il petrolio.
Le dichiarazioni su un ‘supercycle’ possono apparire allettanti, solleticando la proverbiale fear of missing out (FOMO), ovvero la ‘paura di essere tagliati fuori’. Gli investitori più avveduti presteranno particolare attenzione ai piani di investimento delle grandi aziende petrolifere; se queste non saranno capaci di cogliere l’opportunità della transizione ‘green’, potrebbe presto palesarsi il momento giusto per rivedere l’allocazione dei propri investimenti.