L’indice MSCI Emerging Markets (al netto delle ritenute d’acconto) è diminuito del 15,1% (nella rilevazione in dollari) dal picco del 26 gennaio alla fine del secondo trimestre (29 giugno). Pur continuando a esprimere pareri positivi sulle azioni dei mercati emergenti, grazie ai fondamentali e alle valutazioni di fine mese, eravamo consapevoli del fatto che il mercato ha archiviato risultati di tutto rispetto per il 2017 (+37%), con un eccellente rally proseguito anche nelle prime settimane del nuovo anno.
È risaputo inoltre che i mercati tendono a consolidare i rialzi di questo tipo. Senza dubbio, il consolidamento c’è stato e continua tuttora a crescere di intensità.
I catalizzatori di questo inevitabile processo includono l’elevata solidità del dollaro USA – riconducibile a una forte contrazione a breve termine e alla tendenza di avversione al rischio che tende a manifestarsi come una profezia che si autoavvera. Inoltre un altro “taper tantrum” legato ai dati economici ancora incoraggianti negli USA, malgrado le più rigide limitazioni alla capacità nazionale.
Aspetto interessante: nel primo trimestre di calendario i differenziali di crescita dei mercati sviluppati sono aumentati rispetto a quelli del complesso dei mercati emergenti, giustificando in parte il ritorno di modesti afflussi di liquidità nei paesi industrializzati. Ciò vale soprattutto sul fronte del debito dei mercati sviluppati: dopo che i rendimenti dei Treasury decennali statunitensi hanno superato la soglia del 3%, gli investitori sono tornati a mostrare interesse per le obbligazioni statunitensi, trascurando le azioni.
Sempre negli USA, la crescita è rimasta positiva, dal momento che gli stimoli infrastrutturali e fiscali hanno cominciato a tradursi in un sostegno concreto alla congiuntura economica e al rialzo dei tassi sui Fed Fund per questo ciclo. A questo proposito, i tassi target di consenso per gli UST a 10 anni sono saliti dal 3,5% al 4%, spingendo al ribasso il sentiment nei confronti degli altri asset.
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Tali fattori hanno determinato un inevitabile consolidamento dei titoli ciclici dei mercati emergenti, fatta eccezione per alcune materie prime come il petrolio (salito a 80 dollari al barile a seguito dell’offerta proveniente da Iraq e Venezuela). Al contempo, le valute “carry trade” più vulnerabili hanno subito un drastico declino, con in coda lira turca, peso argentino e rand sudafricano, giusto per citarne alcune.
E l’avversione al rischio ha finito per permeare anche i carry di qualità migliore, come il real brasiliano, il peso messicano e il rublo russo – andamento, questo, meno prevedibile dal momento che gli ultimi due paesi sono fra i maggiori beneficiari dell’aumento dei prezzi petroliferi.
A nostro avviso, la solidità del dollaro è destinata ad affievolirsi e presto la prospettiva/realtà di un rendimento annuo sui Treasury USA decennali superiore al 3,25% verrà pienamente scontata. La resilienza dei crediti dei mercati emergenti viene messa alla prova e un così drastico taper tantrum nel 1994, 1998 o 2004 avrebbe determinato un crollo del 50% per le azioni di questi paesi. Al confronto, infatti, quello attuale è un consolidamento lieve, a riprova del fatto che otto delle dieci principali economie emergenti sono ora classificate nella categoria “investment grade” (rispetto ai due e quattro paesi nel 1998 e 2004).
Il rating “investment grade” è un fattore determinante anche per la composizione dell’indice azionario MSCI EM, costituito per il 60% dai titoli di Cina, Corea, Taiwan e Stati del Golfo core, tutti inclusi in questa categoria grazie alle ottime riserve interne, ai cospicui afflussi di investimenti esteri diretti (FDI) e ai bilanci esteri sani. A livello settoriale, la ponderazione dell’indice nei segmenti minerario-metallurgico e dell’energia è inferiore al 15%, il che lo rende meno sensibile al dollaro rispetto al passato. Anche i crediti in possesso di privati e governi sono sostanzialmente maggiori rispetto a 10 anni fa.
Come sempre, esistono paesi più vulnerabili alle inversioni dei flussi nel debito dei mercati emergenti denominato in dollari, il cui rischio di passività è aumentato troppo rapidamente dopo la morsa della crisi finanziaria globale. È proprio questa vulnerabilità che ha diversificato i carry trade solidi da quelli più deboli nel recente sell-off.
Ciononostante, con determinate banche turche che offrono un rendimento del 5% e scambiano a un rapporto prezzo/utili molto moderato di solo 2,5x, si può affermare che “ogni cosa ha il suo prezzo”. Anche se le azioni sono turche e la lira presenta un certo rischio monetario, si tratta comunque di valutazioni “distressed”.
Pertanto, in generale, nutriamo un certo ottimismo riguardo alle azioni dei mercati emergenti nei prossimi 6-9 mesi e intendiamo sfruttare i taper tantrum dell’estate per aumentare gli investimenti in valute e titoli ciclici “bombardati” di qualità migliore.
Riteniamo infatti che le azioni dei mercati emergenti offrano ancora un ottimo potenziale di crescita per il 2018, con gli utili per azione (EPS) destinati ad aumentare verosimilmente del 18%, accompagnati da un notevole re-rating del rapporto prezzo/utili dagli attuali livelli depressi. Un ulteriore sostegno dovrebbe provenire anche dai flussi di cassa positivi, da un rendimento da dividendi in aumento e dalle ottime valutazioni “price-to-book”, soprattutto rispetto alle azioni statunitensi.