Le obbligazioni subiscono quest’anno una delle peggiori performance degli ultimi decenni. Le scadenze lunghe europee e americane perdono quasi il 10% in pochi mesi, più o meno quanto le azioni globali. Una tendenza che rischia di amplificarsi visto che la maggior parte delle principali banche centrali promette un rialzo dei tassi di riferimento e la riduzione della dimensione del proprio bilancio: adesso la lotta contro l’inflazione prevale su tutte le altre considerazioni.
Se le prospettive sulle obbligazioni sono così fosche, perché investire? Se per di più questa asset class non offre più una fonte di diversificazione rispetto alle azioni (senza presentare lo stesso potenziale di apprezzamento), può ancora essere interessante in un’ottica di costruzione del portafoglio?
Investire in obbligazioni: pro e contro
Finché perdura il contesto di aumento dell’inflazione, la risposta è no. Anche se i rendimenti seguono in parte l’inflazione, raramente possono raggiungere lo stesso livello. Per esempio, i tassi tedeschi e americani decennali sono rispettivamente attorno all’1% e al 3% in questo momento, mentre l’inflazione galoppa quasi all’8% in entrambi i Paesi. Inoltre, come vediamo quest’anno, la decorrelazione con le azioni e il ruolo di protezione della stessa sono scomparsi. Infine, le azioni hanno un sicuro vantaggio nelle fasi inflattive: possono essere favorite dagli aumenti di prezzo che le aziende trasferiscono ai clienti. Al contrario, appena l’inflazione dà segnali di stabilizzazione, le caratteristiche intrinseche delle obbligazioni le rendono nuovamente interessanti agli occhi degli investitori. Le azioni possono infatti subire il rovescio della medaglia di un rallentamento dell’inflazione, ossia una contrazione della crescita dei ricavi, quindi dei profitti, mentre le obbligazioni a tasso fisso mantengono per loro stessa natura “l’obbligo” di offrire il rendimento promesso all’emissione, ovviamente elevato se anche il livello di inflazione dovesse esserlo. Le obbligazioni possono inoltre recuperare un potenziale di decorrelazione in caso di crisi economica, in virtù del riflesso di protezione che scatterebbe verso i beni rifugio nonché dell’azione delle Banche centrali che, in genere, in un simile contesto riducono i tassi.
Se le obbligazioni sono destinate a ritornare interessanti quando l’inflazione rallenterà, sarà tuttavia necessario rivedere tutti i riflessi di diversificazione associati a tanti anni di tassi bassi. Nell’ultimo decennio le politiche monetarie iper-accomodanti avevano spinto gli investitori a privilegiare il credito rischioso o le azioni rispetto alle obbligazioni governative. Erano gli anni del TINA (There Is No Alternative), in particolare nessuna alternativa alle azioni. L’attuale spinta inflazionistica lascia invece intravedere a termine un’alternativa in base alla quale sarebbe nuovamente interessante detenere obbligazioni a lungo termine per sfruttarne il ruolo di protezione. Al limite, se i tassi dovessero salire ulteriormente e l’inflazione dovesse scendere, si verificherebbe la situazione opposta: i tassi privi di rischio con una volatilità strutturalmente inferiore alle azioni tornerebbero all’antico splendore.
Si affaccia quindi la prospettiva di un graduale recupero dell’attrattività delle obbligazioni. Oggi, il premio per il rischio prospettico delle azioni (il surplus di rendimento atteso rispetto al debito governativo) è ancora soddisfacente rispetto al rendimento privo di rischio: negli Stati Uniti è del 4%, un livello vicino alla media trentennale, mentre è del 5,7% in Europa, ancora abbastanza elevato rispetto alla media (4,7%; fonte: Societè Generale), per quanto si sia nettamente ridotto con il recente aumento dei tassi. Se questi ultimi dovessero salire ancora, come c’è da temere, il premio per il rischio diminuirebbe ulteriormente. Dopo essere stati trascurati per anni, gli asset obbligazionari ritornerebbero a essere interessanti consentendo di diversificare i portafogli.