Se le azioni sono andate fortissimo un motivo c’è. Ultimamente continua a venirmi in mente la scena di quel classico del cinema che è Casablanca, dove il capitano Renault impone la chiusura del Café Americain di Rick.
“Sono scioccato – scioccato! – di scoprire che qui dentro si gioca d’azzardo!” dichiara, senza sapere che un croupier sta aspettando proprio quel momento per consegnagli le sue vincite. Se foste Rick, considerereste la cosa “piuttosto ridicola“.
Le valutazioni vanno contestualizzate
Si dà il caso che il presidente della Federal Reserve, Janet Yellen, abbia usato esattamente queste parole la settimana scorsa per descrivere le valutazioni azionarie. Si è trattato semplicemente del più recente avvertimento tra quelli lanciati da diversi funzionari della Fed. Il vicepresidente Stanley Fischer ha fatto notare che, in un’ottica di lungo termine, i rapporti prezzo/utili cadono attualmente nel quintile superiore.
Gli ha fatto eco John Williams, membro con diritto di voto del FOMC, che si è detto preoccupato del fatto che i mercati si stiano basando su aria fritta e dell’opinione diffusa che i “prezzi siano ragionevoli”. La situazione ricorda un po’ quella del 1996, quando l’ex presidente della Fed Alan Greenspan osservò, con un commento che passò alla storia, l’“irrazionale esuberanza” delle valutazioni azionarie.
La banca centrale degli Stati Uniti è scioccata – scioccata! – di scoprire che dopo sette anni di interessi a zero e dopo dieci anni di crescita esponenziale del proprio bilancio (da 900 a 4500 miliardi di dollari) le valutazione azionarie sono aumentate.
Se siamo capaci di cogliere l’ironia di tutto ciò sapremo comprendere che le valutazioni odierne dei mercati azionari significano molto poco senza un minimo di contestualizzazione. Perché si trovano a quei livelli? E sono davvero “piuttosto ridicole”?
I tassi di sconto sono bassi, gli utili sono in crescita
Se i mercati azionari sono ridicoli, che cosa sono i mercati dei Treasury USA? In passato, il rendimento a 10 anni tendeva a rispecchiare i tasso di crescita del PIL nominale. Poiché il PIL reale degli Stati Uniti cresce del 2% e l’inflazione è del 2%, il rendimento dovrebbe essere del 4% circa. Attualmente è pari al 2,25%.
Come abbiamo già fatto notare in queste pagine, i Treasury a 10 anni forniscono la base per il tasso di sconto che utilizziamo per valutare gli utili futuri. Le principali banche centrali hanno fondamentalmente modificato i multipli P/E che i mercati azionari sono in grado di supportare e hanno ridotto le opzioni disponibili agli investitori che puntano a realizzare un determinato tasso di rendimento.
Oggi sono pochissimi i titoli che sembrano convenienti. Tra la fine dell’anno scorso e l’inizio del 2017, i sondaggi sulla fiducia dei consumatori e delle imprese sono andati molto oltre i dati oggettivi e parte di quella fiducia si è riversata in borsa.
Ciò non sminuisce il fatto che i dati oggettivi stiano migliorando. Gli utili del primo trimestre hanno sorpreso al rialzo e, anche in assenza della spinta anno su anno dei prezzi energetici, siamo fiduciosi che, quando verranno diffusi, i dati del secondo trimestre sosterranno ampiamente i multipli attuali.
I multipli sono elevati, ma non eccessivi
Certo, i multipli sono tirati, ma non esagerati. La media decennale del rapporto P/E forward a 12 mesi dell’S&P 500 è circa 14-15 volte, a fronte delle 18,5 attuali. Per l’MSCI All Country World Index, si parla di 13 volte invece di 17. L’Emerging Markets Index ha una media decennale di 11 volte rispetto alle attuali 13. Uno scostamento di 2-5 punti rispetto alla media di lungo termine non è una sopravvalutazione esagerata, in particolare se si pensa ai livelli del 1999-2000.
Il rapporto CAPE (Cyclically Adjusted Price-to-Earnings) di Robert Shiller, che prende la media mobile di 10 anni di utili e la rettifica in base all’inflazione, è circa 30 volte per l’S&P 500. Ma all’apice del mercato rialzista dell’era dot com era oltre 40 volte.
E quando pensiamo al prezzo corretto che le azioni dovrebbero avere al momento, val la pena ricordare altre due cose. La prima è che, a nostro avviso, i rapporti P/E medi a 10 anni e il CAPE sono tuttora penalizzati dal tracollo degli utili che si registrò nel 2008-09 e che non farà più parte delle analisi solo fra due anni.
La seconda è che già da diversi mesi gli investitori sembrano aver eliminato dalle valutazioni le prospettive di una legislazione favorevole alla crescita, di un aumento della spesa pubblica o di una riforma fiscale da parte dell’amministrazione USA. Il rinvio del voto sull’assistenza sanitaria, che risale alla settimana scorsa, è solo l’ultimo di una serie di motivi. Se le cose stanno così, il rischio di ribasso per motivi politici è minimo, ma c’è qualche possibilità di rialzo qualora il Congresso, a sorpresa, dovesse approvare qualcosa.
In breve, non si nega che i mercati siano andati fortissimo in questi ultimi anni, ma la cosa non dovrebbe stupire nessuno. È comprensibile che attualmente gli investitori prestino sempre più attenzione alle dichiarazioni dei funzionari delle banche centrali.
Ma come suggeriscono l’apparente dietrofront di Mark Carney alla Banca d’Inghilterra e l’interpretazione esagerata di una recente dichiarazione di Mario Draghi, vale la pena guardare oltre le dichiarazioni ufficiali e cogliere il contesto sottostante dei fondamentali. Non dimentichiamo che dopo i commenti di Greenspan del 1996, l’S&P 500 registrò rendimenti del 33% nel 1997, del 29% nel 1998 e del 21% nel 1999.