Croce e delizia dei mercati finanziari, Donald Trump è stato dapprima festeggiato per la riduzione delle tasse e la spinta alla deregolamentazione, ora osteggiato per il suo atteggiamento sul fronte del commercio internazionale. Ma cosa realmente vuole fare il presidente Usa? E che cosa può ottenere? Se lo è chiesto Tim Drayson, head of Economics di Legal & General Investment Management
Fino all’inizio di quest’anno, i mercati vedevano di buon occhio il presidente americano Donald Trump. Gli stimoli fiscali e l’azione di deregulation, in effetti, hanno permesso di sostenere la crescita, sebbene ci chiediamo se i primi possano davvero rappresentare una politica efficace a livello macro nel medio periodo. Negli ultimi mesi, tuttavia, i mercati sono diventati sempre più nervosi rispetto all’agenda protezionista dell’amministrazione Trump. È molto difficile stabilire fino a che punto possa arrivare la loro tolleranza. Finora, abbiamo assistito a ritorsioni proporzionali per ogni misura intrapresa dagli Usa e vi sono segnali che indicano che l’amministrazione americana è preparata a regolare la propria retorica e il proprio indirizzo politico in caso di scossoni del mercato azionario.
Piuttosto che provare a ipotizzare come tutto ciò andrà a finire, possiamo almeno tentare di fornire qualche numero sull’impatto diretto della crescita delle barriere commerciali. Tuttavia, sottolineiamo fin da subito che l’aspetto circondato da più incertezza è quello degli effetti indiretti: le condizioni finanziarie e il sentiment potrebbero essere scossi da
cambiamenti che modificassero l’ordine del commercio globale.
Finora sono stati introdotti dazi sull’acciaio, alluminio, legname, pannelli solari e lavatrici, fondati su esili motivazioni legate alla sicurezza nazionale e ad altre oscure leggi commerciali. I più alti costi delle importazioni hanno probabilmente fatto più danno agli utilizzatori di queste merci rispetto al valore dei posti di lavoro “salvati” nei settori protetti, ma l’impatto macroeconomico complessivo è minimo. Tutti i prodotti nel loro insieme rappresentano solo una piccola quota dell’economia americana (non più dello 0.2% del PIL). In risposta alle indagini circa l’ipotizzato furto di proprietà intellettuale americana da parte della Cina, dal 6 luglio sono entrati in vigore i dazi del 25% su 34 miliardi di dollari americani di importazioni cinesi. E si sta discutendo su misure per ulteriori 16 miliardi.
In questo primo elenco non rientrano molti beni di consumo. La Cina ha annunciato che reagirà in modo proporzionale e all’interno di aree specifiche per infliggere le più aspre conseguenze agli Usa. Eppure, a nostro avviso, è improbabile che l’impatto diretto sulla crescita superi lo 0.1%-0.2% del Pil. Si potrebbe pure aggiungere uno 0.1% all’Indice Consumer Price core ma anche in questo caso si dovrebbe supporre che gli Usa non riescano, con buona facilità, a procurarsi o produrre i beni altrove. Secondo le previsioni, gli Stati Uniti cresceranno circa del 3% nel 2018, pertanto questo lieve impatto non sarà molto significativo. Le nostre previsioni si basano sul fatto che la guerra commerciale raggiungerà una fragile tregua intorno a questi livelli di dazi, ma temiamo che possa peggiorare nella corsa alle elezioni americane di medio termine a novembre.
Ma non basta: Trump sta inoltre minacciando dazi per ulteriori 200 miliardi di dollari americani se la Cina continua a minacciare reazioni. Ciò coprirebbe virtualmente tutti i 500 miliardi di dollari di beni cinesi esportati verso gli Usa e determinerebbe un aumento dei prezzi su beni di consumo di elevato profilo come tv e cellulari. Più la situazione peggiorerà, più v’è il rischio che gli effetti indiretti crescano in maniera sproporzionata, vista la possibilità di una reazione negativa del mercato finanziario e le possibili conseguenze sulla fiducia delle imprese e dei consumatori.
Trump può vincere una guerra commerciale?
La Cina non può replicare alla minaccia di Trump dollaro per dollaro, in quanto il valore delle sue importazioni di merci americane è solo di 150 miliardi di dollari. Tuttavia il deficit commerciale viene meno se se si considerano le filiali commerciali statunitensi in Cina.
Non è chiaro fino a che punto Trump ostacolerà gli investimenti cinesi in alcune tecnologie americane, ma la Cina può rispondere colpendo le società a stelle e strisce che operano al suo interno.
Ritardi, controlli fiscali e maggiori controlli normativi sono possibili con “bersagli facili” come Hollywood e le società farmaceutiche americane. La Cina si è inoltre dimostrata molto efficace in passato nel creare una macchina della propaganda per incoraggiare il boicottaggio delle importazioni di merci americane o anche i viaggi verso gli Usa. Mentre l’impatto negativo sul Pil cinese di una guerra commerciale di rappresaglia è circa il doppio di quello Usa (poiché è un’economia più ristretta e aperta di quella americana), il Paese sta crescendo almeno al doppio della velocità. Inoltre la Cina probabilmente ha a disposizione più strumenti politici per compensare gli shock della domanda. Senza escludere la possibilità che la politica del paese diventi di nuovo più reflazionistica, in risposta a un potenziale shock negativo della domanda da parte del settore commerciale.
Nel complesso, temiamo la carenza di influenze moderate nell’amministrazione americana e molto dipenderà da come la Cina percepirà le motivazioni degli Stati Uniti. Se la strategia di Trump è solo quella di una negoziazione parziale, si potrebbe trovare un compromesso che potrebbe anche migliorare il sistema commerciale globale. Se tuttavia l’obiettivo è più strategico e orientato a frenare la crescita della Cina come potenza globale, Pechino prenderà una posizione molto più rigida contro qualsiasi prepotenza americana. Per questo motivo e visto l’aumento dei prezzi del petrolio, riteniamo che vi siano rischi di un forte ribasso per la crescita globale rispetto al momentum attuale.