Tre parole chiave per i mercati nel secondo semestre: Cina, Trump e… Trump
I mercati internazionali stanno vivendo una fase di crescita globale sincronizzata, in cui diventa ancora più cruciale individuare i trend che stanno spingendo l’attività economica e i rischi che potrebbero danneggiarne le prospettive. Per il secondo semestre appena iniziato gli analisti di T. Rowe Price guardano fondamentalmente a tre fattori: Trump, Cina e ancora Trump.
Nel quadro del Perspective Event, un incontro con gli investitori tenutosi a Milano, Husain ha illustrato in modo molto chiaro i tre elementi su cui puntare il faro nei prossimi mesi per calibrare gli investimenti sul reddito fisso: “In positivo, Donald Trump e le sue politiche domestiche, mentre in negativo sempre Trump, in ottica di politica internazionale, e la Cina”. In particolare, sarebbe proprio quest’ultima a rappresentare il maggiore rischio in assoluto per l’economia globale al momento. “Il driver dell’attuale crescita sincronizzata è la Cina, non gli Stati Uniti. A febbraio 2016, Pechino ha introdotto un massiccio stimolo fiscale e da allora la crescita globale ha registrato un boom. L’implementazione del pacchetto fiscale in Cina non solo ha funzionato, ma ha avuto un effetto moltiplicatore a livello di crescita globale”.
“L’economia cinese – ha proseguito l’esperto, che sovrintende oltre 195 miliardi di dollari in strategie obbligazionarie – conta moltissimo per l’Europa. Il Vecchio continente sta crescendo perché la Cina cresce. La vendita di automobili, ad esempio, è salita drasticamente in Cina. Si tratta di automobili europee. Per il resto, in Europa non è cambiato molto. La BCE sta facendo commenti più da falco, ma allo stesso tempo, non ha i margini di manovra per alzare i tassi, specialmente se il driver di crescita sarà solo la Cina”.
“Tutto si riconduce alla Cina e a Trump. Il nuovo Presidente statunitense deve iniziare a conseguire dei risultati. I risvolti positivi o negativi delle sue politiche dipenderanno da cosa Trump sceglierà di attuare e se sarà di natura nazionale o internazionale”, ha spiegato Husain, precisando che “il taglio delle tasse e gli investimenti infrastrutturali potrebbero essere enormemente positivi per gli asset più rischiosi e meno favorevoli per i bond”.
Il gestore considera il rendimento dei Treasury USA a 10 anni come “il barometro delle politiche domestiche di Trump. Il rendimento decennale di recente è salito fino al 2,6%, ma ora si attesta intorno al 2,18%, un livello pur sempre superiore a quello pre-elettorale. Ciò significa che i titoli di Stato statunitensi prezzano ancora un certo grado di positività legata alle potenziali politiche presidenziali. Ebbene, il rendimento decennale toccherà di nuovo quota 1,8% ed entro un anno risalirà anche verso il 3%, a segnalare una fortissima volatilità . Tra queste due soglie, la prima ad essere toccata sarà però la prima”. Dall’altro lato, “il peso messicano rappresenta il barometro per il rischio globale. La moneta è tornata sui livelli pre-Trump e, sul fronte internazionale, ciò significa che il Presidente non farà e non otterrà nulla. Si tratta di un ottimo esempio di complacency”.
Sull’impatto dell’elezione di Trump è intervenuto anche Alderson: “Il mercato azionario globale è ancora molto forte, dopo circa otto anni di rialzi. Gli Stati Uniti sono considerati in genere il mercato migliore, in quanto presenta società con una fantastica crescita secolare di lungo termine. L’Europa, gli Emergenti e il Giappone restano ancora indietro, ma nel tempo recupereranno terreno. Tuttavia, l’elezione di Trump – ha puntualizzato l’esperto – ha rimescolato le carte in tavola. I titoli e i listini che nel periodo post-elettorale hanno perso terreno, da inizio anno hanno messo a segno le performance migliori. La Borsa messicana, ad esempio, sta salendo molto, a differenza di quella russa, che ha guadagnato molto fino a fine 2016, per poi ritracciare”.
Anche Alderson concorda nel ritenere che Trump, con l’avvicinarsi delle elezioni di metà mandato, dovrà portare a termine parte del programma elettorale. “Finora, il nuovo Presidente non sta ancora influenzando sostanzialmente i mercati. Semmai, l’insegnamento di questi primi mesi, è quello di fare l’opposto rispetto a ciò che proclama. In generale, gli Stati Uniti sono tornati al picco del 2007, ma gli utili societari sono ancora bassi. Le classi più benestanti sono diventate sempre più benestanti e l’ineguaglianza è aumentata tra la popolazione. Ciò è particolarmente vero per gli USA, ma è una tendenza che si è verificata a livello globale. Per questo motivo, sarà interessante capire quali politiche redistributive verranno proposte e applicate”.
Infine, sulla Cina, Alderson sottolinea come Pechino abbia frenato gli investimenti nell’industria petrolifera ed estrattiva, che prima contavano per circa il 47% del Pil cinese. “Ciò dovrebbe attenuare i prezzi delle commodity nei mesi a venire, con il prezzo del greggio che si stabilizzerà intorno ai 50 dollari al barile. Visto che l’effetto Trump è destinato a scemare, è bene iniziare a valutare cambiamenti e opportunità altrove, sui Mercati Emergenti. Questi ultimi, però, ormai non possono più essere identificati come una singola asset class, ma devono essere soggetti a delle distinzioni.
In termini di dinamiche demografiche per esempio, Indonesia, India e Filippine possono contare su una popolazione giovane che darà spinta al mercato del lavoro e alla richiesta di mutui. Al contrario, la popolazione in età lavorativa di Brasile, Cina e Russia è in calo”. In ogni caso, in generale, le valutazioni dei Mercati Emergenti appaiono ancora convenienti rispetto a quelle delle economie più avanzate. A livello di settori, il più conveniente resta quello dei titoli finanziari, mentre i beni primari sono tra i più cari. Bene anche l’IT, anche se alcuni grandi nomi, come Facebook, Netflix o Amazon stanno diventando troppo costosi, ha concluso Alderson.