MILANO (WSI) – Chi ha girato Parigi in metropolitana si ricorderà di due stazioni, Sébastopol e Malakoff, la prima in centro e la seconda a sud. Sono i nomi di due pagine della guerra di Crimea, voluta da Napoleone III all’apice della sua gloria. Fu il primo conflitto tecnologico della storia, grazie al ruolo importante di telegrafo e ferrovie. Durò due anni e mezzo (1853-1856) e si combatté soprattutto in Crimea anche se la penisola non era l’oggetto dello scontro. Fu una specie di guerra mondiale che coinvolse l’Europa intera (regno di Sardegna compreso) e l’impero Ottomano, tutti schierati contro la Russia. Ebbe un costo pesantissimo in termini di vite umane, fu sostanzialmente inutile e lasciò logorati e indeboliti tutti i partecipanti.
Quando i mercati hanno visto Putin che si prendeva la Crimea con la facilità con cui si beve un bicchier d’acqua, l’intera questione ucraina, che aveva fatto temere il peggio, è stata dimenticata nel giro di mezza giornata e ora sembra storia antica. I mercati sono fatti così, vedono un problema alla volta e dimenticano tutto il resto. Che questo sia il risultato di una ammirevole capacità di andare diritti al cuore dei problemi o dell’impossibilità di tenere in testa più di una cosa alla volta non ha importanza, è così e basta.
L’Ucraina però continuerà a pesare, e anche parecchio. L’Occidente si dovrà sobbarcare, attraverso il Fondo Monetario e direttamente, qualche decina di miliardi di dollari di aiuti (nella speranza che non finiscano sui conti offshore della cleptocrazia di Kiev). La Russia si irrigidirà su Siria e Iran. Teheran ringalluzzita, vista da Israele, diventerà un problema ancora più grave. Il Medio Oriente, consapevole del fatto che l’America non ha più voglia di infilarsi in altri conflitti, darà vita a una corsa all’atomica ancora più rapida di quella già in corso. Il Venezuela di Maduro sarà incoraggiato da Mosca a diventare una spina ancora più dolorosa nel fianco dell’America.
La Russia, dal canto suo, dedicherà ogni sua energia, negli anni e decenni a venire, al recupero dell’Ucraina. Non è in gioco solo il prestigio e non c’è solo da evitare che i mille separatismi interni, incoraggiati dagli eventi di Kiev, facciano esplodere la Federazione Russa. È in gioco la geopolitica. Un missile lanciato da un sottomarino al largo della Norvegia impiega un quarto d’ora a raggiungere Mosca, lanciato dal nord dell’Ucraina ci può mettere un minuto.
Pensare a un ipotetico conflitto nucleare, si dice, è pura paranoia. L’Ucraina non entrerà nemmeno nella Nato e se non si è fatto ricorso alla bomba nei quattro decenni di guerra fredda figuriamoci se ha senso pensarci adesso. È vero ma, come nota George Friedman di Stratfor, le cose possono cambiare in fretta. Nel 1916 il presidente Wilson girava gli Stati Uniti predicando con fervore il pacifismo, nel 1917 più di un milione di soldati americani combattevano in Europa. Nel 1932 la Germania era a pezzi economicamente e militarmente, nel 1941 la Wehrmacht era alle porte di Mosca.
Se ci si è già dimenticati dell’Ucraina è anche perché Putin per primo ha interesse a che la volubile opinione pubblica occidentale si distragga. Per questo, nelle prossime settimane, lo vedremo comportarsi impeccabilmente.
I mercati, dal canto loro, hanno già trovato un nuovo tema a cui dedicare tutta l’attenzione di cui sono capaci, il rialzo anticipato dei tassi in America. La sfida, a questo punto, è capire se anche a questa nuova storia verranno dedicati solo pochi giorni di attenzione o se i guasti su borse e bond potranno essere più profondi e duraturi. Il problema è potenzialmente molto ampio e va al di là di questioni tattiche su quando sia il momento migliore per abbandonare finalmente la politica dei tassi a zero. La questione vera è esistenziale. Si tratta niente meno che dello spazio e del tempo ancora a disposizione di questo ciclo economico e del rialzo azionario.
Fino a tempi recentissimi il consenso era che, dopo cinque anni di crescita globale, esiste ancora nel mondo una tale quantità di risorse inutilizzate da rendere impensabile l’inflazione anche in presenza di un’espansione molto più forte di quella attuale e, per di più, per un periodo esteso. Parliamo in pratica di quella che i demografi chiamano la speranza di vita.
Nelle ultime settimane è successo qualcosa di nuovo. Una serie di studi, anche interni alla Fed, ha avanzato la tesi che una metà dei disoccupati, quelli che hanno perso il lavoro dopo il 2008 e non l’hanno più ritrovato (ma non solo loro), sia da considerare perduta per sempre. Le risorse inutilizzate su cui contare, quindi, potrebbero essere la metà di quanto si pensava, almeno in America. Questo comporterebbe a cascata una serie di conseguenze spiacevoli, in particolare un’inflazione salariale che parte prima, una Fed che deve alzare i tassi in anticipo sul calendario che si era data e, soprattutto, un ciclo espansivo che finisce prima.
La tesi in realtà non è nuova. Gli economisti e gli esponenti della Fed vicini ai repubblicani la avanzavano da tempo. La loro argomentazione era però debole e assomigliava a un pregiudizio astratto, ideologico, dottrinario e strumentale. Questa volta però le preoccupazioni vengono anche da fonti insospettabili, tra cui la Fed di San Francisco, notoriamente liberal, e sono documentate con più rigore.
È la prima volta che il problema classico del riassorbimento della disoccupazione dopo una recessione si intreccia e sovrappone con l’invecchiamento della popolazione e con il fatto che il progresso tecnologico
rende improvvisamente obsoleti così tanti profili professionali. I modelli e i loro risultati vanno quindi presi con pinze molto lunghe. La Fed della Yellen non ha d’altra parte nessuna voglia di esagerare con la prudenza rispetto all’inflazione. Nemmeno la Yellen, tuttavia, può a questo punto evitare di prendere qualche precauzione.
Da qui la decisione del Fomc, nell’aria da giorni e anticipata da Adam Posen. I tassi saliranno prima. Quando? Sei mesi dopo la fine del Quantitative easing. Ma quando finisce il Qe? Il mercato ha subito pensato a ottobre, quando il Fomc approverà l’ultima tranche di tapering. Sbagliato, ha detto l’ex governatore Robert Heller, perché la Fed finirà materialmente di comprare Treasuries in gennaio.
Finora il consenso, ricavabile dalla quotazione dei futures sui Fed Funds, collocava il primo rialzo verso la fine del 2015. Goldman Sachs è sempre stata più ottimista e ha parlato del 2016. Da oggi ci si divide tra i fautori della primavera avanzata e quelli della fine dell’estate.
Per qualche tempo questa nuova realtà creerà disagio nei mercati. Le borse riprenderanno a sperare in dati macro deboli e a temere quelli forti. È possibile, se non probabile, che da aprile in avanti i dati siano particolarmente brillanti. Gli americani sono stati chiusi in casa per il freddo e adesso, si pensa, ricostituiranno le scorte che tengono abitualmente nel garage di casa.
Le borse si apprestavano a festeggiare la fiammata dei consumi, ma ora saranno più nervose e prudenti.
I bond fletteranno, ma non di molto. Nel percorso indicato dal Fomc i tassi a breve americani saranno all’uno per cento alla fine del 2015 e al due alla fine del 2016. Il decennale, riteniamo, potrà fluttuare tra il 3 e il 3.50. La curva dei rendimenti si appiattirà. A chi vuole muoversi con largo anticipo rispetto al bear market dei bond suggeriamo di preoccuparsi per il momento più degli spread di credito che dell’accorciamento della duration.
All’Europa, nel breve, questa nuova situazione potrà perfino far comodo. Il mercato penserà infatti a un rialzo dei tassi americano, ma non a uno europeo. L’euro, finalmente, potrà indebolirsi. Fra qualche settimana i mercati avranno metabolizzato il nuovo quadro di riferimento. Poiché nel frattempo l’inflazione sarà restata immobile e poiché dovrà comunque passare più di un anno perché i tassi vengano aumentati sul serio tornerà il bisogno e la voglia di comprare qualcosa che renda più dello zero assoluto che offre il cash.
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