Ecco la top ten dei Paesi più industrializzati al mondo: Cina, Usa, Giappone, Germania, Corea del Sud, India, Italia, Francia, Gran Bretagna e Messico. Ciò significa, dunque, che l’Italia rimane in settima posizione e che in Europa è terza, dietro alla Francia e alla Germania.
Il problema è che, per sopravvivere, vista la contrazione del mercato interno le aziende italiane dal 2010 hanno dovuto imboccare la strada dell’internazionalizzazione (volgarmente detta delocalizzazione); l’export è infatti aumentato del 3,2% medio annuo, sulla scia di quello tedesco che è ha registrato un incremento del 3,3%.
Anche se l’incremento dell’export può essere positivo, si palesano i limiti del sistema Italia: il costo del lavoro negli ultimi 10 anni è cresciuto del 15,2% e il manifatturiero, nel decennio 2007-2016, ha perso ben 800 mila posti di lavoro. In confronto, per esempio, il costo del lavoro in Spagna è aumentato del 3,1%, in Francia del 7,5% ed in Germania del 10,8%.
Un altro dato rappresentativo della situazione scaturisce nel 2015, dove il monte ore lavorate registra un aumento del 5,2%, a fronte di un aumento dell’occupazione sostanzialmente nullo, dato che ad oggi conta appena 60 mila addetti in più rispetto a 2 anni fa.
Non c’è quindi da meravigliarsi se la crescita stenta. Nel secondo trimestre del 2017 il Pil è rimasto inferiore dell’1,8% rispetto ai livelli del secondo trimestre del 2011 (preso a paragone in quanto è il picco precedente) e del 6,4% in confronto al primo trimestre del 2008 (il massimo raggiunto prima della crisi).
Come spiega Confindustria, questi numeri significano che di questo passo il recupero completo della crisi sarà raggiunto nel 2021: un’enormità di tempo che ci farà perdere altri posti di lavoro, altro ciclo economico, altra competitività ed altre opportunità, con tutto quello che ne consegue.