Società

PDL alle prove con l’exit. Cioe’: emorragia di 80 parlamentari

Questa notizia è stata scritta più di un anno fa old news
Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell’ autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.

ROMA — «Stavolta non abbiamo un piano B», dice Berlusconi. La verità è che nessuno ha un «piano B», non solo il premier e il centrodestra. Perché in questa fase la caduta del governo — per quanto auspicata dalle opposizioni — spiazzerebbe tutte le forze politiche, e presenterebbe il conto a un Parlamento dove al momento non esiste una maggioranza numerica e politica in grado di varare provvedimenti economici draconiani.

Così, per quanto si susseguano le suggestioni e i nomi su possibili alternative al Cavaliere, l’unica cosa certa è che una crisi farebbe coriandoli degli attuali partiti, a iniziare dal Pdl, dove si paventa un’emorragia di cinquanta deputati e trenta senatori. Ecco lo scenario che ieri si parava davanti al capo del governo e al suo alleato Bossi: divisi sulle misure da adottare per scongiurare la disfatta, hanno consumato un Consiglio dei ministri straordinario senza trovare l’intesa, malgrado entrambi sappiano che una rottura li separerebbe irrimediabilmente anche alle elezioni.

Per questo motivo ieri sera il Senatur evocava la «saggezza» per «evitare di farci troppi danni». E il danno irreparabile sarebbe una mancata intesa sulle riforme strutturali. Maroni potrebbe salvare Berlusconi e lo stesso Bossi, e non solo perché ieri il ministro dell’Interno ha lavorato per smantellare le barricate issate di quanti nella Lega si oppongono al progetto di revisione del sistema pensionistico chiesto dal Cavaliere, ma anche perché porta il suo nome la soluzione al nodo previdenziale. E sua infatti la riforma — varata quando era ministro del Welfare — su cui il Carroccio è disponibile a trattare, quello «scalone» che il governo Prodi abolì quattro anni fa.

Tocca a Bossi l’ultima parola, «tocca a te decidere Umberto», ha detto il premier al capo leghista. E in una notte il centrodestra deve decidere delle proprie sorti, non solo di quelle di Berlusconi e del suo governo, ma dell’alleanza così come finora è stata. In caso di divorzio non resterebbe più nulla.

O dentro o fuori, stavolta non ci sono alternative, «stavolta — come ha spiegato il Cavaliere — non abbiamo un piano B». La trattativa serve per verificare fino a che punto possa arrivare la mediazione, che il Senatur definisce «uno slalom tra i paletti» nel quale serviranno le doti di «quel maestro di sci che è Tremonti». Ma in questo passaggio così delicato serve unità di intenti, e ci sarà un motivo se in Consiglio dei ministri Gianni Letta ha richiamato i colleghi alla prova della verità: «La medicina è amara. Siamo chiamati a decidere su provvedimenti strutturali e impopolari. E per fare certe cose bisogna essere tutti d’accordo su tutto. O dovremo essere conseguenti nelle scelte».

Il sottosegretario alla presidenza non ha pronunciato la parola «crisi di governo», non ce n’era bisogno. Semmai si è appellato al senso di responsabilità dell’esecutivo, e ha chiesto anche un atto di generosità verso il premier, «per evitare che gli venga addossata la crisi dell’euro, responsabilità che non è sua».

Non c’è più spazio per i tatticismi. Domani Berlusconi è atteso a Bruxelles con un piano che tolga l’Italia dal banco degli imputati, sebbene «il vero banco di prova — come sostiene Frattini — non siano la Merkel e Sarkozy e nemmeno la Commissione europea, ma i mercati». Una bocciatura del progetto di risanamento e sviluppo da parte dal circuito finanziario internazionale, equivarrebbe a una mozione di sfiducia al governo. Perciò il Cavaliere ha premuto tutto il giorno affinché Bossi aprisse alla mediazione, e si intuisce che — dietro il niet ufficiale del Carroccio — ci sono i margini per un «ritocco» anche delle pensioni di anzianità. Infatti la Padania oggi titola: «No all’innalzamento dell’età pensionabile», che è altra cosa.

Il punto però non è tecnico ma politico. E quando ieri mattina Maroni ha avvisato che «sulla previdenza abbiamo già dato», il motivo era chiaro: per un verso mirava (e mira) a scongiurare una crisi di governo, irresponsabile in questa fase, che verrebbe poi addebitata per intero alla Lega; per l’altro voleva pungolare Berlusconi a non accettare passivamente i «diktat» dei partner europei. Secondo il titolare del Viminale bisognava rispondere «a muso duro» a Sarkozy, perciò è rimasto soddisfatto dalla nota con cui nel pomeriggio il presidente del Consiglio ha ricordato alle cancellerie di Parigi (ma anche di Berlino) che l’Italia «non accetta lezioni da nessuno». E dinnanzi al Cavaliere che insisteva sulla necessità di varare un intervento radicale in materia di previdenza.

Maroni ha rammentato che «l’abbiamo già fatto»: «Questa estate la nostra riforma è stata certificata anche dall’Europa. Non è che adesso non va più bene, solo perché Sarkozy deve salvare settantadue banche francesi esposte ai titoli tossici». Il fatto è che, nel gioco dello «scaricabarile» a Bruxelles, Berlusconi è più debole e senza un «piano B».

Copyright © Corriere della Sera. All rights reserved