(WSI) – Sostiene Antonio Di Pietro: «È giunta l’ora di dividere il campo in due: da un lato il partito dell’illegalità a struttura e vertice piduista, dall’altro il partito della legalità. Il mio è un invito a Bersani e Fini: facciamo una coalizione nuova. Sia chiaro, però, che il mio campo resta quello del centrosinistra».
Il presidente della Camera riprende in mano la vecchia bandiera della “sua” destra, quella della legalità, e rischia di fare la fine dell’interista Mario Balotelli, il pezzo più pregiato di questo calciomercato estivo. Chi lo vuole cacciare. E chi se lo prenderebbe subito.
Del resto, da quando Gianfranco Fini ha introdotto la questione morale nella maggioranza, il suo consenso potenziale sul mercato della politica si è triplicato. Dal 4 al 12 per cento, come riportato giovedì scorso dal Corriere della Sera.
Preoccupato, onorevole Di Pietro?
E perché? Semmai orgoglioso. Sono anni che insisto sul tema della legalità. Fino all’ultima manifestazione che ho fatto a Piazza Navona sono stato considerato quasi un extraparlamentare sulla questione morale. Ma lei lo sa che cosa ha detto Bersani ultimamente?
Dica.
Il segretario del Pd si è sfogato coi suoi e ha detto che non bisogna lasciare a me la bandiera dell’etica in politica. E io anche di questo sono orgoglioso. Significa che sarò pure un contadino con le scarpe grosse ma ho dimostrato di avere il cervello fino. Ci avevo visto giusto. Ora fanno tutti i giustizialisti.
Quindi?
In una situazione grave come questa per battere il modello piduista al governo del paese c’è bisogno di dividere il campo in due in nome della questione morale. Anche perché le persone oneste esistono a destra come a sinistra. Mi rivolgo a Bersani e anche a Fini.
Nel 2007 lei e Fini avete presentato insieme un ddl contro la casta. Senza contare il sostegno missino alle inchieste di Tangentopoli.
La legalità non ha colore politico. Quando le nostre inchieste scoperchiarono il malaffare della Prima Repubblica, i partiti che non non avevano le mani sporche ci sostennero. È il caso del Msi di Fini ma anche alla Lega di Bossi.
Fini, dunque, ritorna all’antico?
Sta vivendo una fase di resipiscenza che spero porti a compimento. Chissà, sarà stata la sua nuova vita privata. È una cosa che mi può fare solo piacere, ma bisogna essere conseguenti. Non si può lanciare la pietra e poi nascondere subito la mano.
Cioè?
In Senato è stata respinta la richiesta d’arresto per un ex An, Vincenzo Nespoli. I finiani che hanno fatto?
Per il momento, quella di Fini è una battaglia dentro un partito devastato da cricca e P3.
Una battaglia persa in partenza. La legalità non può convivere insieme con una struttura piduista. Lì dentro non è possibile una destra che rispetta le regole. Come possono stare insieme il Male rappresentato da Berlusconi e l’esempio eroico di Borsellino? Ah, se mi avessero ascoltato nel ’94.
In che senso?
Sarebbe state sufficienti tre regolette. La prima: non candidare i condannati in via definitiva. La seconda: nessun incarico per i politici sotto processo. La terza: niente appalti per gli imprenditori con problemi col fisco e con la giustizia. Oggi avremmo avuto un’altra classe dirigente.
Invece siamo di fronte a un nuovo tsunami giudiziario.
Stavolta è peggio.
Perché?
L’altra volta il corpo era malato ma ci fu un’operazione chirurgica per asportare il tumore. Oggi il cancro si è riformato ma il corpo malato respinge le cure ed è in metastasi. E così si criminalizzano i magistrati e l’informazione.
Di qui il bisogno di una coalizione legalitaria.
Io mi auguro una scomposizione ma sempre in senso bipolare. Affrontando subito la riforma del sistema elettorale e la risoluzione del conflitto d’interessi.
A sinistra, i suoi critici sostengono da sempre che lei in realtà sia di destra.
Guardi, io sono un liberale vero.
E in passato?
Io provengo da una famiglia contadina molto tradizionalista in campo politico. Mio padre nel portafogli, accanto all’immaginetta della Madonna di Bisaccia, aveva due tessere.
Quali?
Quella della Coldiretti e quella della Libertas.
Lo scudocrociato della Dc e la sua organizzazione collaterale dei contadini.
Esatto. Per mio padre era una cosa automatica, non so come spiegarle. Gliele davano e basta.
E sua madre?
Mi diceva di stare attento a non fare peccato votando per certe forze politiche. Poi, dopo, da magistrato mi sono slegato da ogni ideologia. Io sono per il libero arbitrio e per le persone oneste.
Viva il partito della legalità, allora. Da Bersani a Fini.
Sì, anche se ho un timore.
Quale?
Più che Berlusconi temo il berlusconismo che si è impadronito della società e che preferisce le scorciatoie. Oggi il berlusconismo esiste anche a sinistra, purtroppo.
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di Alessandro De Angelis
La frase gliel’hanno soffocata sul nascere, e non solo le colombe azzurre Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello. Pure Fedele Confalonieri e Gianni Letta lo hanno invitato alla prudenza. E però il premier un modo di arrivare allo showdown con Fini l’ha pensato. Azzardato, forse, sicuramente deflagrante: «Se non si riesce a cacciarlo – è sbottato coi suoi – ce ne andiamo noi e facciamo un altro partito». Per ora è solo una tentazione. Però nell’inner circle del Cavaliere in molti scommettono che l’annunciata riorganizzazione del partito ad agosto passi attraverso un atto eclatante.
Certo, prima di quello che a microfoni spenti i ben informati già chiamano «la fase atomica» con Fini, c’è da approvare la manovra, poi le intercettazioni.
E però il premier, di tregua col co-fondatore del Pdl non vuol sentire parlare. Lo ha spiegato anche ad Adolfo Urso, ricevuto tre giorni fa a palazzo Grazioli. Il viceministro che aveva avuto il mandato dal presidente della Camera di «tastare il polso» del premier, ha ricevuto solo segnali belligeranti: «Tu – gli ha detto senza perifrasi Berlusconi – mi parli di politica, di mediazione dei punti di vista, di incontri a metà strada. Ma qua c’è un punto a monte. Fini e Bocchino hanno deciso di farmi fuori coi loro amici magistrati. La cosiddetta questione morale non c’entra. Qui c’è un disegno per logorarmi».
Proprio sulla legalità il premier è convinto che sia partito l’assalto finale. E non solo da parte di Fini. Dietro le parole pronunciate ieri dal capo dello Stato alla cerimonia del ventaglio il Cavaliere ha letto un «interventismo tutto politico» – per dirla coi suoi – che dà sponda a Fini, e, soprattutto, dà sponda istituzionale all’attivismo delle procure. La denuncia della «corruzione», di «trame inquinanti da parte di squallide consorterie» sono risuonate nella testa del premier come un ulteriore tassello della «manovra» tesa a logorarlo per via giudiziaria. Così come la sollecitazione sullo Sviluppo economico, fatta «a freddo», è apparsa come uno schiaffo, pubblico e plateale. Tanto che il Cavaliere, per chiudere il caso, si è affrettato ad annunciare che il ministro sarà nominato la prossima settimana. Molto probabilmente si tratta di Paolo Romani: la soluzione, scartata all’inizio quando il ministero era pesante, non troverebbe ostacoli oggi che è stato spolpato di alcune deleghe. E dopo che il premier ha ricevuto una serie di rifiuti da parte di “tecnici” di peso, da Montezemolo alla Marcegaglia.
Il timore nelle stanze del potere berlusconiano è che l’assalto di Fini, delle procure (con la benedizione di Napolitano) diventerà devastante quando il premier si ritroverà senza scudo, scaduto il legittimo impedimento. Per questo il problema Fini non è più rinviabile. Però di soluzioni lineari per cacciarlo dal partito il Cavaliere non ne ha trovate. Gli hanno spiegato gli sherpa che ha messo al lavoro sui cavilli tecnici che se i finiani non votano contro una decisione approvata dall’ufficio di presidenza – e Fini non è così ingenuo da farlo – non c’è verso di liberarsene. Neanche la via della separazione consensuale è percorribile, visto che fino al 2014 il patto fondativo dovrebbe essere sciolto all’unanimità, e Fini non lo vuole sciogliere.
Ecco la tentazione di un nuovo predellino, di un appello al popolo, di una mossa che rompa la vita burocratica del Pdl attraverso una sorta di scissione della maggioranza dalla minoranza: «Se va avanti così ce ne andiamo noi». Un azzardo per Letta e Confalonieri. Ma per loro lo erano pure la discesa in campo del ’94 o gli atti che il Cavaliere ha poi rivendicato come frutto di una lucida follia alla Erasmo da Rotterdam.
Il piano non è ancora definito: se il premier ha in mente un nuovo contenitore, o se pensa a un travaso delle truppe pidielline in una delle strutture che gestisce personalmente come i Promotori della Libertà. E forse la tentazione rimarrà tale. Sia come sia qualcosa si sta muovendo, sia pur nell’assoluto silenzio.
Chissà se è un caso, per dirne una, che sono stati commissionati ad Alessandra Ghisleri alcuni sondaggi – sulla popolarità di Fini, sulle intenzioni di voto a una sua lista, sul gradimento a Berlusconi, sul marchio «Pdl» – buoni per preparare una ridiscesa in campo. E chissà se è un altro caso che il fedelissimo Paolo Bonaiuti un paio di giorni fa ha supervisionato, in un orario in cui la sede era quasi deserta, un po’ di stanze a via dell’Umiltà. Già proprio così: il premier avrebbe intenzione – sarebbe la prima volta in quindici anni – di avere una postazione anche nella sede di partito, con tanto di targa fuori. Messaggi simbolici che servono a ribadire chi comanda. Perché una cosa è certa: finché il capo è il Cavaliere, il Pdl – dicono i suoi – «non deve assomigliare ai partito tradizionali, fatti di tessere, correnti apparati». Per questo il tesseramento procede a ritmo blando, su richiesta del Capo: un modo per evitare che il partito del predellino passi nelle mani dei signori delle tessere, e delle lobby che li sostengono.
Di partito se ne parla ad agosto. Prima il premier ha deciso di stare a vedere cosa succederà di qui alla paura estiva. Un azzurro di rango chiede i microfoni spenti per spiegare l’attesa: «Sia nel caso di tregua con Fini, ed è molto difficile, sia nel caso di rottura vanno valutati gli effetti. Se si rompe vanno messe in conto conseguenze sul governo visto che i finiani che seguirebbero il presidente della Camera, secondo i nostri calcoli, sono cinque o sei al Senato ma alla Camera oscillano tra i quindici e i venticinque, un numero che ci complicherebbe la vita».
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