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Pensioni: da gennaio cambia tutto. Le nuove soglie per l’età

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ROMA – Ancora per un po’ il vecchio regime pensionistico e quello nuovo introdotto dalla riforma Fornero convivranno. Poi finiremo tutti per essere proiettati in un sistema che ci riserverà non poche sorprese. Solo per dirne una: se uno vorrà, potrà lavorare, in prospettiva, fino a 75 anni e più. Forse un’opportunità per alcuni (pochi), un’incubo per le aziende.

I REQUISITI – Ma andiamo con ordine. Per tutto il 2012 sono andati in pensione coloro che avevano maturato i requisiti nel 2011 (prima della riforma) ma che dovevano aspettare la cosiddetta «finestra mobile»: 12 mesi per i lavoratori dipendenti, 18 per gli autonomi.

E quindi per questi ultimi il vecchio regime finirà a giugno prossimo. Poi, ancora per qualche anno, ci trascineremo gli «esodati», i lavoratori che, per evitare restino senza reddito, potranno andare in pensione con le vecchie regole (130 mila i soggetti salvaguardati finora dal governo, ma potrebbe essere necessario ampliare la platea).

LE NOVITA’ – Col 2013, però, la riforma Fornero comincerà a prendere il largo, comprese quelle novità già introdotte sotto il governo Berlusconi, come l’adeguamento di tutte le età pensionabili alla speranza di vita. La conseguenza sarà un aumento incredibile dell’età necessaria per lasciare il lavoro, con effetti che finora sono stati trascurati ma che potrebbero creare problemi alle aziende e ai giovani in cerca di occupazione.

Al lavoro a 75 anni?
Il combinato disposto della riforma e degli adeguamenti alla speranza di vita fa sì che il lavoratore, dal 2013, possa scegliere di restare in attività fino a 70 anni e 3 mesi senza essere licenziato (70 anni nel 2012), cioè 4 anni in più della soglia normale di accesso alla pensione di vecchiaia. La legge prevede espressamente anche in questo caso la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (anche se poi è stato attenuato dalla legge 92 del 2012).

FINO A 75 ANNI – Prima della riforma, invece, si poteva restare fino a 65 anni e dopo l’azienda poteva licenziare. Non solo. Questo tetto salirà, per effetto degli adeguamenti automatici fino a 75 anni e 3 mesi nel 2065, applicando le stime contenute nell’ultimo rapporto della Ragioneria generale dello Stato sugli scatti in relazione alle previsioni di allungamento della vita elaborate dall’Istat. In pratica, un giovane che è nato nel 1990, cioè che ha 22 anni e cominciasse a lavorare adesso, potrebbe appunto restare in attività fino a 75 anni. Possibile? Forse si può immaginare per lavori di concetto (difficile per un manovale, un autista, un chirurgo). La riforma, comunque, incoraggia la permanenza al lavoro prevedendo un coefficiente di calcolo della pensione più alto per chi lascia a 70 anni (prima i coefficienti si fermavano a 65), senza considerare che accumulando più contributi l’assegno sale, visto che dal 2012 è scattato il contributivo pro-rata per tutti.

FINE DELLE ANZIANITA’ – La pensione «per stakanovisti», la chiama Angelo Raffaele Marmo in un libro che esce oggi, “Le nuove pensioni” (Oscar Mondadori). Lungo 400 pagine ricche di tabelle ed esempi, Marmo, direttore generale della comunicazione del dicastero del Lavoro, già portavoce del ministro Sacconi, da esperto della materia qual è, conduce per mano il lettore in tutti i segreti della riforma. E anche se il volume non contiene valutazioni, ma solo spiegazioni, suscita inevitabilmente alcuni interrogativi.

A mettere in moto l’ascesa senza fine dell’aumento di tutte le età pensionabili è la regola dell’adeguamento alla speranza di vita, inventata da Sacconi e Tremonti nel 2011 e poi accelerata da Fornero (dal 2019 ogni due anni e non più ogni tre). Così, dal prossimo gennaio scatterà la prima di queste correzioni, che allontanerà per tutti di tre mesi il traguardo. Per andare in pensione di vecchiaia ci vorranno come minimo 66 anni e 3 mesi per i dipendenti pubblici e privati e per gli autonomi (contro i 66 anni del 2012). Stessa cosa per le dipendenti pubbliche.

PRIVATI IN VANTAGGIO FINO AL 2018 – Potranno invece lasciare il lavoro a 62 anni e tre mesi le dipendenti privati: un vantaggio che si esaurirà nel 2018, quando il limite minimo sarà, per tutti i lavoratori, di 66 anni e 7 mesi. Da gennaio salirà anche la soglia per accedere alla pensione d’anzianità, che la riforma ribattezza «anticipata»: 42 anni e 5 mesi per gli uomini e 41 anni e 5 mesi per le donne. E se uno uscirà prima di aver raggiunto 62 anni d’età subirà pure un taglio dell’assegno: dell’1% per ogni anno fino ai primi due, poi del 2%. Salirà di tre mesi, infine, il tetto per la pensione degli stakanovisti: da 70 anni nel 2012 a 70,3, appunto.

Giovani e flessibili
La stessa riforma prevede però una importante novità per chi ha cominciato a lavorare dopo il 1995 e sta quindi tutto nel regime contributivo, concedendo la possibilità di accedere alla pensione di vecchiaia con tre anni di anticipo: a 63 anni, che saliranno a 63 anni e tre mesi dal prossimo gennaio (che aumenteranno fino a 68,3 nel 2065). Quindi per i giovani di fatto c’è una fascia flessibile di pensionamento a scelta tra 63 e 70 anni, con l’assegno tutto calcolato sulla base dei contributi versati. Un sistema più equo e sostenibile.

LA CRISI E I GIOVANI – Più in generale, un aumento dell’età pensionabile era certamente necessario. Ma quando questo accade in un periodo di crisi come l’attuale le conseguenze sui giovani possono essere negative. Lo ha spiegato, qualche giorno fa, Carlo Dell’Aringa, esperto di mercato del lavoro, commentando sul Sole 24 Ore il dato record sulla disoccupazione giovanile (36,5%): «A fronte di un livello dell’occupazione che ristagna da due anni, abbiamo avuto un aumento di quasi mezzo milione di occupati tra i 56 e i 66 anni. Ecco perché i giovani non entrano». Considerazioni che paiono ovvie, mentre solo qualche anno fa molti economisti sostenevano non ci fosse alcuna correlazione tra aumento dell’età pensionabile e disoccupazione giovanile. La realtà, invece, è più complessa.

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