(WSI) – L’irrituale presenza del governatore della Banca d’Italia Mario Draghi al comitato esecutivo dell’Abi (l’associazione delle banche), lunedì pomeriggio, è stata vista negli ambienti finanziari come la spia che la situazione del credito è davvero delicata. Non soltanto per le nuove regole internazionali, che rischiano di costare agli istituti italiani 43,5 miliardi, visto che a tanto ammonta la ricapitalizzazione necessaria (secondo una stima del Boston Consulting Group) per uniformarsi agli standard noti come Basilea 3. Quelli sono problemi di domani e anche di dopodomani, visto che le nuove regole richiedono ancora undici anni per diventare definitive.
I problemi per le banche italiane, quelli che hanno spinto l’Abi a cercare un dialogo rafforzato con l’organismo di vigilanza, cioè la Banca d’Italia, sono molto più immediati. Il primo è l’andamento della cosiddetta economia reale: non c’è crescita. Il 2011 si chiuderà con un aumento del Pil di un misero 1 per cento, ormai tutte le stime concordano. Effetto pratico: le imprese che si sono indebitate per non licenziare o per non chiudere, nell’attesa che la ripresa facesse ripartire i profitti così da rimborsare la banca, devono continuare a trattenere il fiato. E non sono in grado di ripagare il debito, quindi la banca non può sperare di riavere quanto prestato.
La prova che le cose stanno così è che, mentre l’Abi discuteva con Draghi, al tavolo tecnico presso il ministero dell’Economia si arrivava all’accordo per allungare la moratoria dei crediti alle piccole medie imprese. Le aziende in difficoltà avranno tempo fino a luglio per chiedere la sospensione di un anno dei rimborsi e quelle che l’hanno già chiesta possono ottenere una proroga di tre anni. Così le imprese possono sperare di sopravvivere e le banche non dovranno svalutare i loro crediti.
Ovviamente non c’è solo questo. Tra dicembre e gennaio, come ha sottolineato la Banca centrale europea, ci sono state ondate di panico sui mercati finanziari intorno al debito pubblico italiano, e gli effetti si sono sentiti subito. Le banche sono imbottite di Btp e un allargamento degli spread (cioè un aumento della differenza di rendimento rispetto a un analogo titolo tedesco) determina una svalutazione di fatto di quei titoli del Tesoro italiano.
La crisi politica e l’insistenza con cui la Germania vuole costringere l’Europa a discriminare i Paesi con troppo debito (e quello dell’Italia è al 118 per cento del Pil) preoccupano non poco le banche. Anche perché la ripresa dell’inflazione in Europa (a gennaio 2,4 per cento, sopra la soglia di guardia del 2 per cento) lascia presagire che presto la Bce aumenterà il costo del denaro. Con due conseguenze: i margini per le banche aumenteranno, facendo risalire i ricavi, ma molte imprese crolleranno sotto il peso del debito e la banca sarà costretta a svalutare il suo credito.
I grandi gruppi, poi, hanno problemi specifici: i destini di Unicredit sono legati a quelli della Germania e dell’Est, Intesa è la più esposta verso l’Egitto (impieghi per 2,3 miliardi di euro), MontePaschi ha storici problemi strutturali dovuti in parte alla costosa acquisizione di Antonveneta, come ha rilevato di recente l’economista Alessandro Penati su “Repubblica” (provocando una secca smentita della banca). Tanto che in ambienti finanziari circola da tempo l’ipotesi, per ora solo di fantafinanza, di una fusione dell’istituto senese con Intesa. Di cose di cui parlare con Draghi, i banchieri ne hanno quindi parecchie.
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