Nei giorni scorsi, il commissario UE agli affari economici Moscovici ha dichiarato che ridurre il deficit pubblico aiuterà l’Italia a rilanciare la crescita economica. Dello stesso tenore le dichiarazioni successive del premier Gentiloni (“Non è il tempo delle cicale“) che alludono alla presunta necessità di continuare a risparmiare come la celebre formichina della favola di Esopo.
Ma le cose stanno davvero così? Qual è il legame tra deficit, debito e crescita? Dietro raccomandazioni come quelle di Moscovici si celano teorie economiche di stampo liberista che, ad esempio, la stessa Commissione europea ha richiamato nei propri documenti ufficiali. Se ne è parlato qualche tempo fa sulla rivista online economiaepolitica.it dove, in sintesi, si spiega che:
Secondo queste discutibili teorie un’espansione del deficit pubblico finanziata a debito può influenzare negativamente la crescita principalmente attraverso due canali:
(1) L’effetto “spiazzamento” (o crowding-out), secondo cui una politica fiscale espansiva (come, ad esempio, un incremento della spesa pubblica) non fa che “spiazzare” la spesa privata, facendola ridurre talmente tanto da controbilanciare gli effetti positivi della manovra economica. La politica fiscale espansiva finirebbe, infatti, col determinare in vario modo un aumento dei tassi di interesse, con la conseguenza di scoraggiare gli investimenti (che sono diventati appunto più costosi da finanziare) e i consumi (diventati una scelta meno conveniente rispetto al risparmio, ora remunerato con tassi più alti).
(2) Le dinamiche descritte dal teorema dell’equivalenza di Barro-Ricardo, secondo cui un maggiore debito pubblico necessario a finanziare politiche fiscali espansive indurrebbe famiglie e imprese a prevedere un futuro aumento della pressione fiscale per ripianare il debito. Queste previsioni si tradurrebbero in una riduzione dei consumi e in un incremento del risparmio nel presente, chiaramente con effetti negativi per la domanda complessiva e la crescita.
E’ alla luce di queste tesi che paesi come l’Italia vengono spesso richiamati da rappresentanti delle istituzioni europee, sebbene non vi siano forti evidenze empiriche a loro sostegno:
Molti sono stati i tentativi di dimostrare la dannosità di un elevato debito pubblico, ma anche con risultati molto opinabili. Si pensi soprattutto al celebre Growth in a time of debt (2010) di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, secondo cui un debito superiore al 90% del Pil generalmente si associa a tassi di crescita economica negativi. Come già spiegato su Economia e Politica, lo studio è stato clamorosamente smentito e rovesciato nelle sue conclusioni da Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin che vi hanno individuato addirittura errori di calcolo e di metodo.
Alla base di queste discutibili tesi neoclassiche vi sono, infatti, ipotesi teoriche parecchio ardite come l’esistenza di aspettative razionali e la convinzione che investimenti e risparmi dipendano quasi esclusivamente dal tasso di interesse. Nella realtà, invece, gli agenti economici non utilizzano sempre in modo efficiente le informazioni a disposizione e, al contrario, le loro scelte vengono effettuate per lo più in condizioni di “incertezza”. Risparmi e investimenti, inoltre, sono influenzati in modo rilevante da fattori diversi, oltre che dal tasso di interesse. Il risparmio, ad esempio, dipende dal reddito disponibile degli individui, prima che dal suo rendimento, e gli investimenti dipendono dalle aspettative di profitto degli imprenditori, prima che dal costo del denaro.
(si rinvia per approfondimenti a economiaepolitica.it)
Se vengono meno queste ardite ipotesi teoriche, vengono meno anche le tesi dell’effetto spiazzamento e dell’equivalenza ricardiana ed, in pratica, la ragion d’essere dei vincoli sul deficit pubblico.
In conclusione, ridurre il deficit non aiuterà a rilanciare la crescita in Italia. Al contrario, quello di cui abbiamo bisogno è una coraggiosa politica espansiva keynesiana. La ricetta del commissario UE agli affari economici Moscovici è controproducente e priva di solide fondamenta.