Gli Stati Uniti non sono certo il paese dove è inibita la libera iniziativa. È il luogo, però, dove per primi hanno compreso il pericolo dei monopoli e per primi lo hanno fronteggiato. La prima legge per limitare i danni dei cartelli e dei monopoli, lo Sherman Antitrust Act, è datata 1890. Da allora, a fasi alterne, vi è sempre stato un susseguirsi di azioni di contenimento, ma anche allentamento, dell’azione delle corporation le quali se da un lato contribuivano alla prosperità del paese dall’altro, nella loro foga di crescita senza limiti, ne potevano compromettere l’indipendenza e la stabilità. I fenomeni Google e Facebook però hanno alcune caratteristiche che le rendono più insidiose, e difficilmente controllabili, dei giganti dell’economia brick & mortar.
Il 31 agosto del 1910 il presidente americano Theodore Roosvelt fece un discorso, chiamato del “Nuovo Nazionalismo”, col quale pose un programma sul progressismo per i decenni successivi. La sua diagnosi del problema delle grandi corporation dell’epoca era chiara. La ricchezza stava diventando sempre più concentrata a causa della crescita di tali soggetti economici e i ricchi stavano utilizzando le loro risorse per corrompere la politica.
Il problema non era la ricchezza di per sé, ma come era acquisita e come era utilizzata. “Non invidiamo nessuno per il suo patrimonio nella vita civile se è ottenuto onorevolmente e ben utilizzato. Non è nemmeno sufficiente che esso debba essere stato guadagnato senza fare danni la comunità. Dovremmo permettere di ottenerlo solo a patto che tale acquisizione rappresenti un beneficio per la comunità“.
A distanza di più di 100 anni questa ultima affermazione rimane ancora la vera bussola che dovrebbe guidare l’azione del legislatore, ma anche dei clienti, dei fornitori e di tutti i cittadini che aspirano a rimanere tali.
Quale è allora,
È di tipo ben diverso da quello delle antiche e nuove corporation, più subdolo perché indiretto. Infatti oltre alle pratiche di ‘pressione’ che riescono a dispiegare, quelle attività di lobby che i i sistemi giuridici anglosassoni hanno riconosciuto e disciplinato, nel loro caso il danno è la possibilità di accesso a miliardi di persone, su scala planetaria, da parte di terzi che vogliono condizionare gli utenti di tali piattaforme, come ricorda un recente articolo del Wall Street Journal.
Che si tratti delle fake news o di condizionamenti sul prossimo voto presidenziale (come pare abbia fatto il governo russo) ci troviamo di fronte alla disponibilità, a prezzi tutto sommato contenuti, di indirizzare le opinioni di miliardi di persone (e in tutto il mondo non solo negli USA). È questo di fatto il nocciolo del business dei social network, anzi a detta del New York Times, ci troviamo addirittura di fronte ad un “capitalismo della sorveglianza“.
È lecito intervenire per limitare un tale fenomeno? Sempre più voci, proprio da oltreoceano, si levano in tal senso. Il pericolo da scongiurare è una degenerazione del fenomeno al punto tale che minacci la nostra libertà e generi una guerra aperta contro questi nuovi probabili mostri in quanto, come ricordava ancora Roosvelt nel suo discorso,
“l’essenza di ogni lotta per una sana libertà è sempre stata, e deve sempre essere, quella di portar via da un uomo o da una classe di uomini il diritto di godere del potere, della ricchezza, della posizione o dell’immunità, che non sia stato guadagnato dal servizio ai suoi simili.”